Interviste senza tempo La vita e il pugilato 5. Momo Duran

Senza memoria non si costruisce il futuro. In questi giorni mi sembra sia un concetto da urlare, non c’è domani senza il rispetto del passato. Lo sport è fermo, la boxe non fa eccezione. E allora sono andato a cercare in questo blog delle parole che propongano una storia. Un intreccio tra ieri, oggi e domani. Interviste con personaggi che si sono saputi raccontare. Sono dieci, ve le ripropongo ferme nel tempo, domande e risposte senza (quasi) alcun ritocco. Buona lettura.

5. continua
(1. Leonard Bundu, 6 aprile; 2. Luca Rigoldi, 7 aprile;
3. Mario Romersi, 8 aprile; 4. Patrizio Oliva, 9 aprile)

Il 27 luglio 1990 Momo Duran è diventato campione del mondo dei massimi leggeri Wbc battendo a Capo d’Orlando, per squalifica all’undicesima ripresa, Carlos De Leon. È stato anche campione italiano ed europeo della categoria.


30 luglio 2018

Il telefono suona due sole volte, prima che arrivi il terzo squillo Massimiliano ha già la cornetta in mano.

Dimmi Rocco”.
“Sapevi che avrei chiamato?”
Lo speravo”.
“Ho una grande notizia per te”.
Dimmi Rocco”.
“Prova a indovinare”.
Il titolo europeo?
“Sali”.
Non dirmi che è il mondiale”.
“E invece te lo dico. Hai la possibilità di fare il titolo. Hai un’ora di tempo per decidere. Prendere o lasciare”.
Ti richiamo”.

Cinque minuti dopo Carlo torna a casa.
Papà, ha chiamato Rocco. Posso fare il mondiale”.
“Te la senti? Ne sei convinto?”
Certo”.
“E allora andiamo a prenderci questo titolo”.

È nata così la grande avventura di Massimiliano Duran.
Accadeva nella tarda primavera del 1990.

Due mesi dopo, il 27 luglio di quell’anno: venti giorni dopo i mondiali di calcio di Italia ’90, si batteva sul ring di Capo d’Orlando contro il grande Carlos De Leon.

Massimiliano, vogliamo parlare di quella notte?

“Volentieri Dario, comincio dicendoti come mi sentivo dopo quella telefonata di Rocco Agostino. Mi sembrava di essere protagonista di un sogno”.

Se chiudi gli occhi, quale è la prima immagine che ti torna alla mente?

“Quella di un signore che dal palazzo accanto all’hotel dove alloggiavo in attesa del match a Capo d’Orlando, mi ha visto e salutato. Due minuti dopo ero circondato da una marea di ragazzi, nell’edificio vicino c’era una scuola e loro volevano conoscere lo sfidante al titolo”.

 

Altri tempi, altra popolarità per il pugilato.

“Il match era trasmesso in diretta da Rai2, telecronista Mario Guerrini, interviste di Franco Costa. Stadio pieno”.

Nello spogliatoio, prima dell’incontro, sia tu che Carlo avete detto che eravate sicuri della vittoria.

“Il mio obiettivo era quello di diventare campione italiano. C’ero riuscito, poi avevo avuto questa enorme fortuna. Non potevo sprecarla. Sapevo che sarebbe stato un match difficile, De Leon era un campione con grande esperienza. Ma ero preparato a tutto. Papà mi aveva detto molte cose, mi aveva raccontato dei trucchi che i pugili usavano sul ring. Mi aveva messo in guarda sulle ditate negli occhi e i colpi alla gola. Non aveva tenuto delle lezioni, mi aveva raccontato queste storie mentre mangiavamo. Come se nulla fosse. E puntualmente il portoricano mi aveva fatto vedere in concreto cosa significasse subire quelle scorrettezze. Ero preparato. Mi allenavo a Bogliasco assieme a tanti campioni. Vedevo gli altri andare a combattere per un titolo e spesso tornare vincitori. Mi sentivo parte di una scuderia importante. Ero convinto di vincere, di farcela. Non potevo sciupare un’occasione del genere. Mi sentivo in grado di accarezzare il cielo, di toccare il fuoco senza farmi male”.

Carlos De Leon aveva disputato quindici titoli mondiali, tu avevi fatto in tutto quindici match. Lui era stato più volte campione, aveva una borsa da 500.000 dollari in arrivo per una sfida con George Foreman, era più esperto e maturo. Perché eri così sicuro di farcela?

“Non è che fossi certo in assoluto. È che l’avevo visto combattere e mi ero fatto l’idea che se lo avessi preso in velocità, se avessi usato il mio sinistro come sapevo, se avessi avuto le gambe per reggere il ritmo delle dodici riprese, sarei potuto scendere dal ring da campione”.

Alla fine è andata così, anche se la conclusione non è stata quella immaginata.

“Ho vinto per squalifica all’undicesima ripresa. Lui era già stato scorretto in quel round, mi aveva buttato in terra con una spinta. L’arbitro Logist aveva trasformato quella scorrettezza in un knock down e mi aveva contato. Poi era andata anche peggio. Dopo il suono del gong che decretava la fine della ripresa, con l’arbitro in mezzo, lui mi aveva colpito in faccia con un gancio destro. Io avevo guardato Logist e avevo visto che non aveva intenzione di fare niente neppure quella volta. Allora ho pensato che mettendo il ginocchio al tappeto avrei potuto farlo ammonire, così avrei pareggiato il conto. Ma in quel momento si è scatenato l’inferno”.

Sono volati sul ring chili di spaghetti, una scena che è stata mandata in onda dalle televisioni di tutto il mondo.

“È vero, a ripensarci mi viene da ridere. Uno degli sponsor aveva fatto distribuire pacchi di spaghetti, uno per ogni spettatore. La gente, sentendosi tradita, ha manifestato in quel modo la sua disapprovazione”.

Campione del mondo per squalifica, al termine di un match in cui eri comunque avanti nei cartellini dei tre giudici.

“Era andato tutto come avevamo previsto. Ero avanti di due e tre punti, il terzo aveva il pari. Per il verdetto è stata determinante la mediazione dell’avvocato Antonio Sciarra, all’epoca alla guida del professionismo. Ha parlato con l’inglese Clark, il rappresentate del Wbc, e sono arrivati alla decisione più giusta. Altri dirigenti, altri tempi”.


Carlo, dopo il match, mi diceva che avrebbe voluto portarti negli Stati Uniti.

“Il piano era quello. Prima una difesa a Ferrara contro Anaclet Wamba, in quello che sarebbe stato il mio ultimo match in Italia. Poi la sfida contro Thomas Hearns negli States. L’accordo era già stato raggiunto. Lui voleva vincere un’altra corona dopo quelle dei welter, superwelter, medi, supermedi e mediomassimi. Io avrei preso una borsa da un milione dei dollari. La mia vita sarebbe completamente cambiata”.

E invece non è andata così.

“La mia vita è cambiata, ma non nel senso che avevo pensato. Papà è morto e io ho visto saltare il mio mondo in aria. Ero arrivato troppo in alto per gestire tutto da solo. Non sapevo come fare, mi mancava quella guida che avevo sempre avuto. Non ho avuto la capacità di tirarmi fuori da quella situazione. Ho sofferto un casino, chi avevo attorno ne ha approfittato e io non mi sono neppure difeso”.

Cosa è accaduto?

“Borse che cambiavano in continuazione, match che venivano spostati senza informarmi. Cose normali fuori dal ring, ma io non ero preparato ad affrontarlo. Per me era qualcosa di insostenibile. Ci sono rimasto così male che quando ho smesso di fare il pugile ero disgustato dalla boxe, sono rimasto un anno senza neppure mettere piede in palestra”.

Eri molto legato a tuo padre, del resto tutta la tua famiglia è molto unita. Lasciando un attimo tranquilli mamma Augusta e tuo fratello Alessandro, dimmi: quali sono le cose più belle che Carlo ti ha detto da uomo e da pugile?

“Da pugile, una volta alla fine di un allenamento a Bogliasco, mi ha detto: “Massimiliano sono contento, adesso sei forte e maturo. Andrai lontano”. È stato grande. Da uomo mi ha detto una cosa che mi ha profondamente toccato: “Ti ringrazio per quello che stai facendo per tuo fratello Alessandro, non ti rendi neppure conto di quanto tu lo stia aiutando”. Ero già campione del mondo, probabilmente se mi fossi montato la testa e avessi fatto il fenomeno lui ne avrebbe risentito”.

Di Alessandro sei stato anche l’allenatore. Come era il vostro rapporto?

“Abbiamo dormito per sei anni nella stessa stanza. Credi che qualcuno potesse conoscerlo meglio di me? Conoscevo i suoi punti di forza e le sue paure. Su una cosa potevamo discutere all’infinito senza essere d’accordo. Lui diceva che se un pugile non ha talento non va da nessuna parte. Io gli rispondevo che quel che diceva era vero, senza talento non si può costruire nulla. Ma se non hai accanto una persona che quel talento riesce a fartelo esprimere al cento per cento, puoi rimanere per sempre un incompiuto che non arriva fino a dove sarebbe potuto arrivare. Non lo ammetterà mai, ma credo di avere avuto un ruolo importante nella sua carriera: i titoli li ha vinti con me accanto. Lui lo sa, anche perché quando veniva all’angolo non potevo dirgli una cosa che già la stava facendo”.

Come sarebbe stata la famiglia Duran senza la boxe?

“Non so cosa rispondere. Avevo quindici anni e già avevo deciso. Mi divertivo a fare il pugilato, ero contento di farlo. Sentivo l’orgoglio di essere diverso, di essere in grado di fare cose che altri non riuscivano a fare”.

L’idea che saresti potuto arrivare al mondiale, quando è arrivata?

“Se devo scherzare, dico che una volta eravamo a tavola Alessandro, Kalambay ed io. Ridendo ho detto: ecco tre campioni del mondo, Sumbu dei medi, Ale dei welter e io dei mediomassimi. E andata proprio così, anche se ho cambiato categoria. Ma quella era solo una battuta. Se devo essere serio dico che da quando ho cominciato pensavo a obiettivi sempre più importanti, passo dopo passo. Intendo dire che ci credevo, sognavo di arrivarci, non che ne fossi sicuro”.

E dopo il mondiale come ti sei sentito?

“Mi sembrava di volare”.

In palestra adesso hai una cintura speciale del World Boxing Council. Che significato ha?

“È stata una gioia, un momento di felicità. Devo ringraziare il presidente Mauricio Sulaiman e Mauro Betti, un amico, una persona seria. È una cintura realizzata appositamente per l’Italia, per il torneo che avevo in mente. Ci sono i simboli di tutte le regioni italiane e al centro quello della Repubblica. Ne sono orgoglioso, anche se non è finita come avevo sognato”.

Chiudo con una domanda poco impegnativa. Chi ti ha regalato il tuo soprannome?

“È stato quello svitato di mio zio Romano. All’esordio da professionista dovevo incontrare Momo Cupelic che si è presentato a Ferrara con dei mutandoni che non vedevo da anni. Erano da militare, con lo spacco davanti. Da vergognarsi, anche se devo dire che oggi Cupelic le avrebbe suonate a tanti. Quando in allenamento non andavo, avevo poca voglia o non facevo le cose per bene, mio zio continuava a ripetermi: “Non fare il Momo, Non fare il Momo”. Così quel soprannome mi è rimasto addosso, un giornalista l’ha scritto in un articolo ed è stata la fine. Ma mi ha portato fortuna e quindi dico: Grazie Momo”.

Massimilano chiude con una risata questa lunga chiacchierata.

È il testimone di un pugilato che forse non tornerà più. Quello dei match in diretta sulla Rai, degli stadi pieni, dei nostri campioni che partono nettamente sfavoriti e battono il grande di turno.

Oggi Momo allena. E lo fa con la stessa passione di sempre.

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