Lele Blandamura, la vita è una lotta che non finisce mai…

Lui si chiama Lele, Emanuele Blandamura.
Per vivere tira e prende cazzotti.

Ha combattuto dentro e fuori dal ring. Non c’è stata giornata in cui non sia stato chiamato a confrontarsi con i demoni. La sua è stata una vita presa a pugni. Ci vuole coraggio per uscirne fuori assorbendo al meglio i colpi, riuscendo poi a piazzare una botta vincente.

Crescendo ha capito che doveva usare una differente chiave di lettura, abbandonare il livello della commiserazione e passare all’azione vera e propria. È stato bravo a venirne fuori, lottando e soffrendo, combattendo ogni volta che qualcuno non voleva concedergli gli spazi ai quali aveva diritto. È stato bravo soprattutto nonno Felice a camminargli accanto. Gli ha insegnato come ritrovare un minimo di serenità, senza imporgli regole o stilare una lista di comandamenti da cui non derogare. Per fargli capire cosa fosse la vita ha scelto la strada più difficile da praticare, quella dell’esempio silenzioso.

E Lele ha capito (sopra la recensione del libro su La Gazzetta dello Sport).

La boxe l’ha aiutato. È stato il mezzo attraverso il quale ha potuto dare una spinta all’autostima. E lentamente, con grande costanza, si è trasformato in un vincente. Sul ring e nella vita (sopra Lele ed io alla presentazione del libro a Buttrio, all’interno dell’agriturismo dove la mamma lavora). Ogni trofeo lo ha messo in mostra nella cameretta della casa di piazza Ottaviano Vimercati, il suo rifugio. Lì ha pianto quando si scontrava con il buio dei ricordi, ha scacciato quei demoni che si trasformavano in incubi, lì ha sorriso quando ha capito dove fosse riuscito ad arrivare.

Era un bulletto di periferia, è diventato un campione (sopra la recensione del libro su Il Romanista).

Aveva solo dieci mesi quando, lasciato dai genitori, era andato a vivere dai nonni: Felice e Isabella.

Incubi e dubbi però non lo lasciavano mai.

A 12 anni rischiava di essere stuprato da un pedofilo, sfiorava la depressione. Cercava aiuto nei posti sbagliati, provava la droga e ne usciva. Arrivava a sfiorare il suicidio.

Lo salvava nonno Felice (sopra la recensione del libro sul Corriere dello Sport-Stadio), maresciallo dei carabinieri in pensione. Gli insegnava ad amare la vita. Era un rapporto speciale quello nato tra il ragazzo ribelle e l’anziano signore che ne aveva viste tante nella sua esistenza. Guerra e prigionia comprese.

Nonno Felice è stato la guida, il ragazzo diventando uomo ci ha messo tenacia, intelligenza e volontà.

La storia era andata avanti, sino a quando i ruoli si erano invertiti. Il bulletto di periferia, capita la lezione, si era preso cura del nonno malato.

Ritrovava la mamma dopo ventisette anni di silenzio, intensificava i rapporti con il papà dopo tanti problemi.

Blandamura oggi è un pugile: campione europeo, sfidante al mondiale dei medi. Ha perso in Giappone per il titolo Wba contro Ryota Murata. Si è fermato solo pochi mesi, è tornato a combattere, ha messo assieme due vittorie e adesso aspetta la prossima grande occasione.

Ma il dolore non l’abbandona, nonno Felice non c’è più (sopra una foto della presentazione del libro a Cerignola, dove il nonno era nato). Se ne è andato via per sempre. La vita è una lotta che non conosce fine.

Tutto questo Lele (foto sopra) racconta in prima persona.

Sullo sfondo della storia c’è una Roma di periferia, palestre che sembrano grotte, strade violente, culture che si fondono.

“Che LOTTA è la VITA”, la drammatica storia di Emanuele Blandamura, Edizioni Slam/Absolutely Free.
Nelle migliori librerie e su tutti i punti di vendita online.

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