Questa è la storia di Kent Green, l’uomo che mise ko Cassius Clay

St Clair Hotel, Chicago.
25 febbraio 1958.
Due giovani pugili, entrambi di Louisville nel Kentucky, escono dall’albergo, fermano un taxi su Michigan Avenue, salgono e chiedono un piccolo aiuto al conducente. 
“Ci porti da qualche parte dove possiamo trovare un paio di prostitute”.
Jonathan Egg, nel libro Muhammad Ali, la vita (66th A2nd, 2017) racconta più o meno così quella notte di peccato.
Il tassista guida fino all’incrocio tra la 47th e Calumet Avenue. 
I due scendono.
Una giovane nera e una bianca più matura camminano lentamente verso di loro.
Il ragazzo alto, magro, ossuto direi, opta per l’afroamericana. Lei ha meno di trent’anni e un corpo sensuale, sussurra al giovanotto tre parole che aprono le porte di un universo per lui sconosciuto. 
“Prendiamo sette più due” dice fissandolo negli occhi.
“Non capisco” risponde il ragazzo.
“Sette dollari per il sesso, due per la stanza”.
“Che sesso?”
“Ti faccio fare il giro del mondo”.
“Cioè?”
“Ehi bello, tu parli troppo. Andiamo”.
Ripide salite, improvvise, esaltanti discese. È un percorso faticoso quello che porta alla scoperta del sesso, ma è anche un Luna Park che al ragazzo piace, anche se lo intimidisce. Quando torna in albergo non ha ancora realizzato appieno cosa abbia fatto. Ma è contento.
È andata così, sembra, l’iniziazione sessuale di Cassius Marcellus Clay jr. 

Il pugile e il suo coach Joe Martin sono a Chicago per il Torneo dei Campioni dei Golden Gloves. Il ragazzo, il giorno dopo la scoperta del sesso di strada, ha in programma la semifinale dei mediomassimi.
È alto 1.86 e pesa 75,600 kg. Ha compiuto da poco sedici anni. L’altro si chiama Kent Green, è più grande di un anno e mezzo, più basso di cinque centimetri e più pesante di quattro chili.
Il match sta in piedi per un round, il primo. Poi il jab di Cassius cala di potenza, le sue gambe non si muovono come vorrebbe. Nella seconda ripresa l’arbitro interrompe il combattimento un attimo prima che Joe Martin lanci l’asciugamano. È kot. L’unico subito da Clay da dilettante. Il sito specializzato boxrec ne ricorda un altro, kot 1 è scritto nel verdetto dell’incontro con Terry Hodge, all’interno degli Wave Tv Studios di Louisville. Ma poi lo stesso sito precisa: ferita all’occhio
Quello di Green è un knock out vero, un risultato che gli regalerà nel tempo il nomignolo di Muhammad Ali’s ghost. Come un fantasma quel soprannome lo seguirà per l’intera vita. Una specie di leggenda, l’unico capace di mettere ko il più grande. Almeno fino a quando non arriverà un secondo knock out. Quello che Larry Holmes ha inflitto ad Ali nel penultimo match da professionista.

Pochi giorni fa Rick Kogan, giornalista del Chicago Tribune, è andato trovare Kent Green per raccontare la sua storia. L’ex pugile vive ancora nella periferia della città più conosciuta dell’Illinois. Ricorda ogni secondo di quella sera del 26 febbraio 1958. Ricorda con gioia. E non certo perché quel torneo l’ha poi vinto. 
Da professionista non ha fatto molta strada. Esordio nel ’59, stop nel ’61. Borse che andavano dai 150 ai 250 dollari. Ha lasciato il pugilato, ha cambiato lavoro, è entrato all’YMCA dove cercava di convincere i giovani americani a lavorare, piuttosto che affiliarsi a una gang di strada. Si è sposato, ha divorziato.
Un giorno di primavera, era il 1968, ha incontrato Clay, ormai diventato Muhammad Ali. Si trovavano entrambi in un ristorante di Chicago. Kent era al tavolo con Betty, la seconda moglie.
“Dai, vai, salutalo. Magari gli fa piacere” gli diceva lei.
“Magari non sa neppure chi sono” si difendeva lui.
“Se non provi, non lo saprai mai”.
“Vado, ci provo. Ma se va male, è colpa tua”.
Betty gli sorrideva, gli dava un dolce bacio sulla bocca e una pacca leggera sulle spalle.
Kent entrava in una sala privata. 
Ali era lì. Stava facendo quello che gli piaceva di più. 
Parlava e danzava. 
Danzava a parlava.
Green avanzava di un paio di passi.
Ali si bloccava.
Ken prendeva coraggio.
“Ciao”.
Ali lo guardava.
“Signori questo è quell’ottuso (turkey, nello slang originale americano, ndr) di Kent Green. Mi ha messo knock out. Adesso mi prendo la rivincita”.
Si avvicinava. Il volto si trasformava, assumeva un’espressione cattiva. Alzava le sopracciglie, spalancava gli occhi, apriva la bocca, mostrava i denti. Quando arriva a tiro sorrideva, lo abbracciava. Un amichevole, lungo, affettuoso abbraccio.
“Ehi Kent, che fai adesso?”
“Lavoro all’YMCA”.
“Niente più boxe? Ti piace ancora?”.
“Niente più boxe, mi piace ancora”.
“Fammi fare una telefonata”.
Alzava la cornetta, faceva un numero, chiedeva all’interlocutore di inserire in programma il suo vecchio amico Ken.
Il primo dicembre del ’68, dopo quasi otto anni di inattività, Green saliva sul ring di Miami. Vinceva. Disputava altri due match a Miami. Vinceva ancora. Perdeva il quarto incontro di rientro e si ritirava.

Dieci anni dopo era seduto in poltrona nella casa del suo vecchio amico Ali. 
“Saresti in grado di combattere?” chiedeva Muhammad.
“Ho 39 anni, non combatto da dieci. No, non sarebbe una buona idea” rispondeva Ken.
“E se ti dicessi di salire sul ring contro di me, per un milione di dollari?”
“Sono pronto”.
Quel match non si è mai fatto. 
Il 3 giugno del 2016 Ali se ne è andato via per sempre.
Kent Green oggi ha 84 anni, ha lavorato per la Coca Cola, è andato in pensione. Ora lui e Betty hanno cinque figli. È un uomo fiero del suo passato. E no, anche se quel soprannome gli piace, lui non si sente il Fantasma di Ali. Quel match è stato una cosa vera, reale. Ha messo ko il pugile che sarebbe diventato lo sportivo più popolare della storia. 
È tutto così vero, che ogni notte gli sembra di affrontarlo di nuovo.

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