Mondiale massimi. Abbiamo perso la capacità di indignarci



Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire.
Importa davvero chi abbia pronunciato queste parole?
Avrebbero un peso diverso se fossero di Voltaire, della scrittrice britannica Evelyn Beatrice Hall o di un altro personaggio?
Bastano per tacciare di ignoranza chiunque non individui chi le abbia dette per primo?
L’ho presa alla lontana, ma sono anziano e questo mi consente di avere tempo per il presente, piccola ricompensa davanti al tempo che si accorcia quando penso al futuro. Oggi va così. Mi sono imbattuto in un fatto che mi ha spinto a una riflessione su come sempre più spesso nelle discussioni ci si fissi sui particolari meno importanti. Si evita di analizzare l’intero concetto, si cerca velocemente un appiglio per schierarsi, si è portati ad accettare come ineluttàbile una situazione per il solo fatto che si ripeta nel tempo.
Siamo stati privati da qualcosa che da sempre è sinonimo di progresso. Ci è stata tolta la curiosità, è stata ridotta ai minimi termini la voglia di capire, di sapere. Ci hanno convinto di non averne bisogno, perché già sappiamo tutto. Piuttosto che sui libri, ci informiamo sui social network. Facebook, Twitter, Instagram e via scendendo. Siamo diventati autoreferenziali. Spieghiamo, azzanniamo, insultiamo. Sparite lettere e telefonate, si comunica via post, attraverso uno strano linguaggio in cui domina il turpiloquio.
Sono molti i lettori che non leggono. Si fermano al titolo, cercano qualcosa con cui argomentare, meglio se in modo violento. Non è indispensabile conoscere l’argomento, sapere veramente cosa abbia scritto chi vogliamo offendere, perché tutto questo sarebbe inutile e ci farebbe perdere tempo. E tempo non ne abbiamo, dobbiamo insultare qualcun altro. Non sappiamo più ascoltare, preferiamo parlare. Non leggiamo, preferiamo scrivere. Siamo convinti di avere qualcosa da dire. Spesso non sappiamo cosa, ma in fondo è un problema secondario.
Da quale particolare nasce l’ennesima avvelenata?
Da una notizia.
Sono sempre stato d’accordo con Rino Tommasi.
“Il problema non è che ci siano due, tre o quattro campioni del mondo. Il problema nasce nel momento stesso in cui il campione non è più uno solo”.
Le parole sono importanti. Campione del mondo indica univocità. Sei il più forte su questo pianeta, in quello sport, in quella sezione, in quella categoria.
Il pugilato ha perso da tempo questa prerogativa.
Concedere legittimità nella gestione della disciplina a più organismi è stato il primo passo verso il distacco dalla passione popolare. L’impossibilità di riconoscersi in un solo eroe, di ricordarne il nome, di poterlo indicare come il più forte, ci ha fatto perdere l’identità stessa del rapporto.
Vengo al fatto che ha scatenato in me l’ennesima botta di tristezza sportiva.
Leggo che Trevor Bryan è il campione del mondo dei pesi massimi per la World Boxing Association, e questo già mi suona strano. Non perché non lo sapessi, ma perché non mi sembra normale. È ancora più strano perché so che in quell’Associazione i campioni del mondo sono due, oltre al detentore del titolo Gold. Poi ci sarebbero anche quelli di Wbc, Wbo, Ibf e via siglando.
Mi fermo. Aumentare le chiavi di lettura del caso in esame credo sarebbe fuorviante.
Trevor Bryan è dunque il campione.
Il 29 di questo mese, tra due settimane, a Warren in Ohio difenderà il titolo contro Jonathan Guidry: un signore di 32 anni, professionista da otto, con un record di 17-0-2.
È alto 1.80 e sale sul ring attorno ai 112/115 chili (120 nell’ultima sfida). Ha una folta barba scura, pochi muscoli, fianchi abbondanti. Nove dei suoi rivali hanno un record negativo, nessuno di loro appartiene a un livello medio-alto del pugilato mondiale. Dei suoi 19 match, ne ha disputati 18 in Louisiana, la sua terra. Per la sfida a Bryant intascherà 70.000 dollari, più 10.000 per le spese.
Per il sito specializzato boxrec.com è al numero 72 tra i 344 pesi massimi americani, al 255 tra i 1222 colossi del mondo.
A novembre non era tra i Top 15 della WBA.
A dicembre improvvisamente è entrato al numero 13. In quel mese non ha incontrato nessuno. E non è che si portasse dietro un’esaltante serie di ultimi risultati. Fermo dal 2019, è tornato sul ring il 14 agosto del 2021. Ha sconfitto ai punti in otto round Rodney Moore, anni 46, con diciassette sconfitte negli ultimi venti combattimenti.
Ecco, questa è la scatenante. Non importa se Bryant conserverà il titolo o Guidry, a sorpresa, sarà il nuovo campione. L’aspetto negativo della questione sta nel pensare che due pugili come loro possano disputare il campionato mondiale dei pesi massimi.
La boxe ci ha abituati a qualsiasi spettacolo. Importanti mezzi di comunicazione hanno indicato come personaggio pugilistico del 2021 uno youtuber che fino ad oggi non ha mai incontrato un pugile. L’hanno fatto perché ha guadagnato 40 milioni di dollari e ha costretto gli stessi media a parlare di lui. È la rappresentazione di cosa sia diventato oggi lo sport. Concedersi senza pensare tanto a chi ci si conceda. Il metro di valutazione è rappresentato da guadagni e popolarità. Ci si è uniformati alla società dello spettacolo. La boxe si è trasformata. È sempre più vicina a quel wrestling tenuto su da abili sceneggiatori.
Questa è solo l’ultima cattiveria della fila. Altri scandalosi campionati del mondo sono stati messi in piedi, altri lo saranno. Fino a quando non si tornerà al primitivo scontro senza regola alcuna, tra uomini senza protezioni, una sfida primordiale in cui il vincitore sarà chi riuscirà a sopravvivere. Oppure ci caleremo in una teatrale rappresentazione di show creati per stupire. Una sorta di falsa realtà  in cui l’ossimoro già definisce la natura dello spettacolo.
Nel momento stesso in cui un campionato del mondo tra due signori senza titoli per giocarsi la cintura diventerà la normalità, scopriremo che la boxe è uno sport che appartiene al passato e non ha futuro. Ma forse è già accaduto e noi non ce ne siamo accorti.


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