
Ho ricevuto una lettera.
Comincia così il mio viaggio nel passato. L’ennesimo alla ricerca del tempo in cui io e il pugilato eravamo più forti. Una lettera, un modo obsoleto di comunicare. Oggi nessuno ne scrive più. Meglio un SMS. Frasi corte, grafia veloce.
c 6?
xkè?
c vdm alle 8?
dv?
slt pst
ok
Arrivasse a me una cosa del genere, penserei a qualche poveretto colpito da strazianti crampi alle mani mentre stava digitando un messaggio sulla tastiera del telefonino. In realtà è solo uno scambio di domande per fissare un appuntamento. Una cosa romantica, insomma.
C’è anche chi osa l’inosabile e lancia un messaggio WhatsApp o, se proprio vuole esagerare, una email.
E invece io ho ricevuto una lettera. Me l’ha spedita Terry Gordini, le aveva chiesto di farlo il papà, il mio amico Meo. È la copia di un’altra lettera indirizzata a lui con questa intestazione…
Bartolomeo Gordini
Presidente A.N.A.P.
Dentro ci sono parole piene di affetto, di gratitudine, di stima.
La firma è di un grande della boxe italiana, Natalino Rea. L’uomo che, tra le altre imprese, ha guidato la squadra azzurra portandola vincere tre ori, due argenti e un bronzo all’Olimpiade di Roma ’60.
Ho letto quel nome e davanti a me è apparsa la figura di un uomo tosto, onesto, abile. Un maestro che veniva dalla scuola di un altro grande, Steve Klaus. Di Rea ho scritto in un libro, L’oro dei gladiatori, in cui racconto la magia dei Giochi romani.
Cerco il volume negli scaffali dello studio, sfoglio le pagine, rileggo.
Natalino Rea era nato in Vicolo del Piede. Angelo, il papà, era venuto al mondo in un attico di Santa Maria in Trastevere, nella casa che con il tempo sarebbe diventata di Burt Lancaster. Desdemona, la mamma, era di via dei Fienaroli. Non erano semplicemente romani, era una famiglia di trasteverini puri.
Lui, Natalino, aveva scelto il pugilato. Era stato campione italiano nel ’36 e nel ’37. Tre match contro Roberto Proietti: una sconfitta e un pari a Testaccio, una vittoria a Trastevere.
Natalino, come stai?
Bene papà.
Questo è quello che conta. E come è andata?
Ho vinto, papà.
Bene, allora sei davvero un pugile.
Attraversando Ponte Sublicio, subito dopo Porta di Ripa Grande, si va da Trastevere a Testaccio. Un piccolo grande viaggio tra vicoli che appartenevano a chi li occupava.
Natalino amava la boxe, l’amava al punto da condizionare anche la scelta della data del suo matrimonio. Il 16 settembre del ’71, il giorno del suo cinquantaquattresimo compleanno, ma anche un periodo in cui gli impegni della nazionale non erano pressanti.
Perfezionista nella preparazione, capace di ardite interpretazioni psicologiche, tecnico raffinato, motivatore da applausi. Ma anche uno a cui piaceva la battuta, si lanciava in spericolati stornelli romani o in classici come Arrivederci Roma.
Come ct della squadra italiana, non si tirava indietro davanti a situazioni difficili. Escludeva Giulio Saraudi, una stella, dal team che avrebbe partecipato a Tokyo 1964. Era stato scoperto a fumare una sigaretta, cosa altamente proibita dal regolamento interno. Rea scelse Cosimo Pinto, che andò in Giappone e vinse l’oro nei mediomassimi.
Ma soprattutto schierava Nino Benvenuti nei welter a Roma, facendo passare Carmelo Bossi nei superwelter. Scelta premiata da un oro e un argento.
Natalino non ha mai dimenticato i suoi ragazzi: Benvenuti, Musso, De Piccoli, Bossi, Saraudi, Atzori, Pinto, Valle, Bentini, Bambini.
È stato una roccia, alla boxe ha dato tutto sé stesso.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo. Avevamo un grande amico in comune, Roberto Fazi: inviato della Gazzetta dello Sport e mitico direttore di Boxe Ring. Abbiamo fatto lunghe chiacchierate. Era un piacere sentirlo parlare di pugilato, dovevo solo stare lì ad ascoltare. Aneddoti, storie, analisi tecniche, gestione tattica dei match. Di qualunque cosa parlasse, speravo che durasse fino a quando la notte e la stanchezza non ci avrebbero rispediti a casa.
Una lettera mi ha regalato la gioia di raccontarlo ancora una volta.

Mi piace quando scrive: Grazie, ma grazie detto in un certo modo, come sento dentro di me. Lì c’è tutto Natalino. Ti sta dicendo che ha capito il gesto, l’ha apprezzato e quel grazie non è solo una formalità, esce dal cuore.
E allora, rubandogli la frase, dico: Grazie Natalino, ma grazie detto in un certo modo, come sento dentro di me…