Lunedì 28 giugno avrà inizio l’edizione 2021 di Wimbledon. Il 9 luglio del 2001, sull’erba dell’All England Club, ho visto la magia del tennis.
Impossibile dimenticare quello che ho appena visto.
Guardo il verde e il viola di Wimbledon, ogni cosa racconta la favola di un principe guerriero che, stanco di appoggiarsi ai ricordi, sceglie di vivere nel presente. Ma anche nel momento in cui la passione sembra possa spaccargli il cuore, non tradisce sè stesso. Goran Ivanisevic è uno che la vita la prende di petto e nell’animo nasconde sentimenti forti.
Subito dopo avere alzato quel trofeo inseguito dal giorno della sua prima finale con Agassi nove anni fa, guarda il cielo.
«Questo è per te Drazen.»
Drazen è Petrovic: fuoriclasse del basket europeo e di quello della Nba, morto nel ’93 in un incidente automobilistico.
Poi Goran torna ragazzo.
«Non vorrei che qualcuno venga a svegliarmi per dirmi: ehi, hai perso un’altra volta».
Patrick Rafter poco più in là sorride. Lui è il principe buono, l’altro protagonista di una grande finale.
Le lacrime fanno da cornice all’intera scena.
Piangono i tifosi croati in tribuna.
Lo stadio è completamente rivestito di bandiere. Sono di più quelle australiane, ma anche gli altri si difendono bene. Una bolgia infernale, come nel tennis non sono abituati a vedere. La vita si è presa la scena, non curandosi molto di quello che si dovrebbe fare nel tempio.
Piange Sdrjan Ivanisevic, il papà. Ha tre by-pass e i medici gli hanno sconsigliato il viaggio. Ma lui non riesce proprio a stare lontano da quel figlio che lo fa impazzire fin da quando era bambino.
Piange Goran mentre sta per servire il primo match-point. L’ultimo game, un thriller pieno di sorprese.
Sotto 15-30 il croato piazza due ace e guadagna la palla del titolo. Si punisce con un doppio fallo, conquista un altro match-point e lo annulla con un altro doppio fallo.
Per due volte è a un punto dalla vittoria a Wimbledon, per due volte fallisce.
Eccolo qui Cavallo Pazzo, l’ho ritrovato e non posso fare a meno di chiedermi: “Cosa farà ora?”
Il papà abbassa la testa, teme possa ripetersi la delusione delle altre tre finali perse. Non ce la farebbe a sopportarlo. In quelle però, Goran non è mai arrivato così vicino al successo.
Sbaglia Rafter. Terzo match-point.
Ivanisevic bacia la palla, le parla, le chiede di fare il suo dovere, di non punirlo ancora.
Pallonetto dell’australiano.
Parità.
Servizio vincente.
Quarto atto di una commedia che sta scivolando nel dramma. La folla è come se fosse scomparsa, c’è una assordante silenzio mentre Ivanisevic prepara il servizio.
I croati pregano, gli australiani ondeggiano come se stessero praticando chissà quale antico rituale. Papà Sdrijan abbassa le sopracciglia, stringe il naso verso i suoi baffoni. Sembra voglia scomparire, sente che anche un solo sospiro potrebbe rovinare l’incantesimo.
Servizio, errore di Rafter.
È fatta.
Piangono tutti, perché tutti vogliono un gran bene a Ivanisevic.
Goran racconta storie, inventa personaggi. È un affabulatore, sa incantare con le parole. Ma è anche uno che spara servizi che incutono timore. Ce l’eravamo dimenticato. In una sola partita mette assieme 41 ace, accumulandone anche cinque in un game. Poi, come dopo la sfida con Roddick, viene in conferenza stampa e incanta con le sue risposte.
Due match-ball, cosa hai pensato in quel momento?
«Signore, dammi un altro punto.»
Un doppio fallo, un rovescio fuori, una palla in rete. Break-point per Roddick. Cosa stava accadendo?
«Ero fermo, attaccato alla linea di fondo e mi chiedevo: che ci faccio qui? Era come se avessi i piedi nella sabbia. Volevo muovermi, ma non ci riuscivo. I due Goran che sono in me hanno cominciato a litigare, erano entrambi nervosi. Io dicevo: ragazzi, calmatevi. Ma loro non mi ascoltavano. Sentivo che non sarei uscito vivo da quella situazione.»
Poi?
«È arrivato il terzo Goran, quello che viene quando ci sono le emergenze, quello col cervello, e ha detto: ragazzi siamo in un campo meraviglioso, rilassatevi. Tre ace di fila. È cominciata in quel momento la mia nuova vita.»
Se ne trovate un altro così, portatelo su un campo da tennis e tutti assieme impazziremo per lui.
Dopo il punto della vittoria, Ivanisevic si toglie la maglietta e la lancia alla folla. Sulla sua spalla destra appare il tatuaggio di una rosa. Se l’è fatto qualche tempo fa a Los Angeles, settanta minuti di dolore. Poi, quando l’uomo che ha portato a termine il disegno gli ha chiesto se volesse dipingerla di rosso, lui è scattato in piedi.
«E no, amico. Grazie, ma basta così.»
Un’ora e dieci minuti per il tatuaggio, 44’ in più per battere Andy Roddick e approdare agli ottavi di finale.
Ha cambiato il servizio, lo ha adattato di più al suo fisico: un’eccessiva rotazione del tronco era pericolosa per la schiena. Ha sofferto mille infortuni (pollice, piedi, polso, schiena) ed è precipitato in classifica. Per risalire è andato a prepararsi a settanta chilometri da Barcellona: a Lorret de Mar (posto di sofferenza per un atleta, di grandi bagordi per un inglese libero da impegni) in un campo di terra battuta, assieme agli junior spagnoli («Su questa superficie uno junior spagnolo gioca meglio di qualsiasi britannico»). Tre mesi tra un torneo e l’altro per migliorare il gioco da fondocampo.
Era pronto per il grande appuntamento contro Rusedski.
Ivanisevic, che match sarà?
«Un altro incontro bello da vedere: 15-0, 30-0, 40-0, game. Cambio di servizio: 15-0, 30-0, 40-0, game. Tie break. Finito. Spero che lui sia più nervoso di me. Io sono diventato un tipo tranquillo. Non protesto, non spacco le racchette. Anche nei punti dubbi me ne sto calmo. A dire la verità uno dei due Goran voleva andare dall’arbitro a urlare le proprie ragioni. Per fortuna l’altro gli diceva: stai calmo, ma dove vai?»
Dopo il punto finale contro Roddick, dopo essersi tolto la maglietta, Goran urla: «Come on», che un romano atradurrebbe: «E annamo!».
Il sogno si sta realizzando.
A riportarlo ai problemi terreni ci pensa un giornalista croato.
Ivanisevic, cosa pensi dell’arresto di Milosevic?
«Ora è nella sua casa, in prigione. Deve rimanerci per sempre.»
Goran conquista Wimbledon edizione 2001.
È arrivato fin qui grazie a un invito speciale dell’All England Club.
È entrato come numero 125 del mondo, la classifica più bassa per un vincitore del torneo.
Solo sofferenza negli ultimi diciotto mesi. Per una spalla, quella sinistra, che lo sta facendo impazzire di dolore. Per i risultati che proprio non vengono. Lo scivolamento sempre più giù, fino a quel 129 che gli avrebbe impedito di entrare nei tabelloni.
Per lui solo un futuro di qualificazioni e Challenger.
Poi viene qui, serve 213 ace, batte Roddick, Rusedski, Safin, Henman e Rafter.
I bookmaker, che lo quotavano 66-1, ora dovranno pagare. Piangono anche loro.
La finale è una partita piena di angoscia, di eccitazione, di ansia. Ogni colpo può essere quello decisivo. Per due volte Rafter è a due punti dal match, ma non ce la fa. A dicembre dovrebbe annunciare sei mesi di riflessione per poi (penso) ritirarsi definitivamente.
È una partita che Ivanisevic rischia di rovinare concedendo troppo a quella radice di follia che non lo abbandona mai. Per un fallo di piede e una chiamata dubbia (per me aveva ragione Goran) insulta il giudice di linea, quello di sedia, scaglia la racchetta a terra, prende a calci la rete. Rischia soprattutto di perdere la concentrazione, arma vitale in un incontro così carico di tensione.
Ma alla fine vince e sale sulle gradinate ad abbracciare il papà.
Poi, assieme, piangono.
L’estate di Goran, di Dario Torromeo (Absolutely Free Libri, 210 pagine, 18 euro)