Gennaio ’88. Rosi batte Duane Thomas, il ko arriva alle 3:45 del mattino

Ieri osavo lottare.
Oggi oso vincere.
(Bernadette Devlin)

 

Genova, 2 gennaio 1988

Gianfranco misura la hall dell’albergo percorrendola a lunghi passi. Sorride, scambia due parole con gli amici. Poi esce e si incammina lentamente nella pancia di una città disincantata, reduce dalle feste per il nuovo anno appena iniziato.
Lui ha trascorso il Natale in palestra. A Capodanno si è concesso uno sfizio, un piatto di lenticchie.
«Ma solo perché sono una promessa di soldi in arrivo».
Festa in casa. Lui, la moglie Patrizia, e il dottor Lamberto Boranga.
Insalata e lenticchie. Poi, stop.
«Un sorso di vino l’avrai bevuto?».
«Sono sparite tre bottiglie di champagne e io non ne ho mandato giù neppure un goccio. Miracoli della notte di Capodanno…».
Il mondiale vale qualsiasi sacrificio.
Stavolta in palio c’è il futuro.
Saranno le 03:00 della notte tra il 3 e il 4 gennaio quando Rosi e Duane Thomas saliranno sul ring. Le 21:00 del giorno prima negli Stati Uniti. La ESPN è la televisione che ha dettato i tempi.
Fuori programma sarà quello che accadrà attorno alle 02:30, dopo il match tra Don Curry e Lupe Aquino, prima del mondiale.

L’ha annunciato l’altra sera Bob Arum.
«Il papa americano, Frank Sinatra, ha detto al mondo che nessuno cucina le trenette al pesto come Zeffirino. Vorrei avere una conferma».
Detto, fatto.
Venti chili di pasta e cinquanta mazzetti di basilico per il piatto che The Voice ha definito favoloso. Sarà servito per duecento persone a bordo ring.
Rosi è tranquillo. E questo lo rende nervoso, lo preoccupa. Non avverte la consueta tensione che precede un match importante. Non vuole rischiare di perdere la concentrazione.
«L’eccesso di sicurezza ti porta a sbagliare. È per questo motivo che sto cercando qualcosa che riesca a farmi innervosire».
Dovrà affogare lo sfidante, impedirgli di ragionare, imporre il suo ritmo. Colpi tirati in rapida successione e improvvise e repentine schivate. Il jab sinistro di Thomas è veloce, il destro fa male.
Contrastare il pugilato del campione è difficile. Ha una boxe intelligente, nella quale però non sono ammessi errori. È proibito commettere anche il minimo sbaglio.
«Lui è un opportunista. Non dovrò farlo ragionare, dovrò tenerlo costantemente sotto pressione. Ha un pugilato più europeo che americano. Verrà comunque subito dentro per imporre il suo stile. Sì, l’ho visto bene, ha le sopracciglia segnate. Forse è caduto da bambino…».

Un cappuccino e due brioche. Comincia così la giornata della vigilia per Gianfranco. Non ha problemi di peso.
«I pensieri, quelli veri, me li regala mia moglie che spende soldi in continuazione».

 

Genova, 3 gennaio 1988

Il primo sospetto che nell’avvicinamento al match ci sia qualcosa di strano arriva quando fissano le operazioni di peso alle 11 del mattino. Il match è alle 3 della notte, me le sarei aspettate attorno alle 15:00.
Mancano quindici minuti all’orario ufficiale quando i due protagonisti salgono sulla bascula.
70,100 per Rosi
70,500 per Thomas.
Il limite è 69.853.
Cinque minuti dopo, nuova pesatura.
69.933 Rosi.
Il supervisore lascia correre, Bob Arum applaude imitato dal resto della sala. Problema risolto.
70,300 Thomas, quasi mezzo chilo ancora sopra.
Arum applaude di nuovo, il supervisore Sam Macias segna sul foglio 69,853 e gli applausi aumentano.
Gianfranco va giù pesante.
«Sapevo che nel mondo della boxe ci sono mafia e corruzione, ma non credevo si manifestassero in maniera così evidente. Bob Arum ha avallato il peso di Thomas quando sapeva benissimo che era fuori di mezzo chilo. Mi ha dato fastidio l’intervento di persone estranee al mio clan. È gente che non sa cosa significhi sacrificarsi in allenamento o prendere pugni sul ring. È facile stare dietro un campione. Quando perde, gli dai un calcio, lo dimentichi e ricominci con un altro. Non voglio essere lo strumento di nessuno. Non ho accettato compromessi e non lo farò certo adesso. Quando perderò, tornerò a essere il signor nessuno. Sono pienamente cosciente di questo. Ma a sbagliare non è stato solo Arum. Quello che è successo coinvolge anche chi ha fermato il mio manager che stava protestando. Credo sia finita l’epoca dei gangster nel mondo della boxe. Non mi presto a questi giochi».
Tutto è cominciato quando chi doveva operare sulla bilancia ha cercato di avvantaggiare Rosi, sopra di 80 grammi, dando per buono il peso. A quel punto Arum si è sentito in diritto di favorire Thomas avallando lo sforamento di quasi mezzo chilo. A errore è seguito un errore decisamente più grande.
Farsa? Scandalo?
È la boxe, bellezza.

Genova, 4 gennaio 1988

Mentre Duane Thomas vola fuori dalle corde, le braccia inermi lungo i fianchi, gli occhi chiusi per non vedere la paura, gambe incrociate in segno di una resa ormai definitiva, Gianfranco Rosi salta di gioia e con lo sguardo cerca gli occhi di Patrizia. Cappellino rosso, pantaloni dello stesso colore, la moglie è lì, a pochi passi, arrampicata su una traballante impalcatura, a urlare di gioia.
Come una maschera antica, una di quelle che può restituire mille facce a seconda di come la si guardi, Rosi anche stavolta offre l’ennesima versione del suo pugilato e dà il meglio di sé. In questa occasione si propone come pugile che, pur di portare a termine il lavoro, accetta di rischiare oltre il dovuto.
Deve privare lo sfidante di qualsiasi scelta tattica, Thomas non deve avere il tempo per pensare. E allora, sull’altare di questo schema, il campione sacrifica anche l’estetica. Va a vuoto più del solito, si espone più del previsto, ma macina azioni in continuità e tiene un ritmo che stroncherebbe anche i grandi.
Ancora una volta ha ragione lui.

Livelli tecnici non esaltanti, vero. Ma l’azione che chiude il match è da applausi: un gancio destro corto spegne i riflessi dello sfidante. Una successione di colpi rapidissimi, una lunga serie senza dare a Thomas il tempo per riprendere fiato, chiude il conto.
Il ko arriva alle 03:45 del mattino.
Il pesto lo precede di tre quarti d’ora.
Piatti verdi e profumati invadono il bordo ring. Duecento forchette scattano all’unisono, per le trenette non c’è scampo.
Bob Arum ride.
«Se riuscissimo a fare la stessa cosa a Las Vegas, metteremmo su un affare sensazionale. Ci sarebbero soldi per tutti».

Deluso dalla sconfitta del suo Thomas?
«Sono un professionista. Non mi interessa chi vince o chi perde».
Sono le 5 del mattino quando Gianfranco Rosi si siede su una comoda sedia nell’angolino più remoto dell’albergo che lo ospita.
«Bene ragazzi, domani devo combattere. Spero di farcela».
Strappa un sorriso.
«Pugni ne ho presi, sapete che fanno male. Può anche capitare che non ricordi che giorno è».
Qualche risata.
Che hai provato quando Thomas è andato giù?
«Gioia! È brutto dire che mi sono sentito felice? E io lo dico lo stesso. Quando l’ho visto crollare, mi sono detto: E chi sono, Tyson?».
In platea c’era Hearns.
«Non chiedetemi l’impossibile. Lui e Hagler vorrei evitarli» ride.

Dove trovi la forza di volontà, la determinazione che mostri sul ring?
«Mio padre Nazzareno mi ha insegnato che nella vita per raggiungere un obiettivo, bisogna inseguirlo con rabbia, quella che ti viene dalla fame. Quella vera. Io non faccio a cazzotti solo per me, ma per mia sorella che sta male, mio fratello che ha sofferto, per mio padre che sarebbe ora che smettesse di lavorare, per mia madre che dovrebbe pensare solo a riposarsi. Lo sento da sempre questo ruolo di perno della famiglia. Devo arrivare il più in alto possibile. Solo in quel momento mi sentirò a posto con me stesso».
Un obiettivo nel cuore, un chiodo nella valigia.
«Vero. Anche stavolta quel chiodo di ferro che mio padre mi ha portato dall’Arabia ha viaggiato con me. Alla superstizione non rinuncio».
Alle 7 del mattino Gianfranco va a riposare. Non riesce a chiudere occhio, alle 11 è già nella hall. Pranzo veloce, poi il viaggio di ritorno a Perugia. Spazza via i dolci accumulati in dispensa: pitoccate, torrone e panettoni, beve qualche bicchiere di spumante e finalmente si mette a letto per il sonno dei giusti.
E Duane Thomas? Non vuole rilasciare dichiarazioni. Stringe la mano al campione e si allontana.
Esce dal Palasport, ma anche dalla scena mondiale.

Perugia, 5 gennaio 1988

«Sto vivendo una popolarità che non conoscevo. Ho riguardato l’azione del knock out. Vedermi aggredire in quel modo Thomas mi ha quasi spaventato. Non mi credevo così cattivo».
Gianfranco mi racconta un piccolo segreto del match mondiale.

«Al quinto round ho rischiato di finire ko. Sono stato centrato da un gancio sinistro di Thomas. Che dolore! Sono rimasto intontito, avrei anche potuto perdere il match. È forse per questo che non ricordo chiaramente la ripresa successiva. O forse è stata solo una questione di tensione. A fine combattimento non ero stanco fisicamente, ero distrutto per lo stress mentale».
Il modo in cui ha risolto la questione ha suscitato emozioni forti anche in chi guarda solo occasionalmente la boxe. La potenza espressa in quel momento ha riportato alla mente alcuni grandi campioni americani. Da noi vedere una conclusione di quel tipo in un match mondiale, è merce davvero rara.
Questo ragazzo di trent’anni non finisce di stupire.

(da “Eravamo l’America” di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free, pagine 270, 15 euro)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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