
Tra poco più di una settimana, saranno passati quarantadue anni dalla vittoria di Patrizio Oliva all’Olimpiade di Mosca. Era il 2 agosto 1980, il napoletano veniva premiato come migliore pugile dei Giochi. Erano gli anni Ottanta, una stagione magica per la boxe italiana, che in quel decennio schierava tre ori olimpici e sette campioni mondiali: assieme a Patrizio, i fratelli Loris e Maurizio Stecca, Giovanni Parisi, Gianfranco Rosi, Patrizio Sumbu Kalambay, Valerio Nati, Francesco Damiani. Le loro storie sono raccontate nel libro ERAVAMO L’AMERICA.
Io sogno la mia pittura,
poi dipingo il mio sogno.
(Vincent Van Gogh)
Napoli, 1 agosto 1980
Patrizio è magro, ossuto, con un’enorme massa di capelli ricci a riempire una testa sempre piena di pensieri. Ha un’idea fissa, diventare campione. Ogni mattina si mette davanti allo specchio della sua cameretta e porta in scena la stessa commedia. Ripete i movimenti che ha visto fare al fratello Mario e ai ragazzi della Fulgor nello scantinato/palestra di via Roma. Una, dieci, cento, mille volte. Non si stanca mai. È poco più di un bambino e già sogna di vincere il titolo, ha anche scelto la categoria: campione del mondo dei superleggeri.
Il pugilato di Patrizio Oliva è da sempre un’arte per intenditori. Agli altri appare noioso. Forse perché non finisce i match sanguinante e senza fiato, non si immerge in feroci battaglie, ma inanella round che replicano lo stesso copione: lui colpisce, gli altri non riescono a colpirlo.
Il talento si vede subito.
Nereo Rocco lo esalta.
«Sei veramente forte, puoi considerarti il Rivera del pugilato»
Nino Benvenuti lo sceglie come suo erede.
Vince a sorpresa gli Europei junior. Così a sorpresa che la delegazione italiana non ha neppure portato l’inno. Gli Europei senior glieli scippano. L’oro va a Serik Konakbayev, ma il mondo intero sa chi ha vinto in quel tardo pomeriggio di metà maggio a Colonia. Lo sa anche Max Schmeling che si incammina lentamente verso il bordo ring, poggia le mani sul tappeto e urla la sua protesta. Lo sanno gli spettatori che fischiano per dieci minuti il verdetto. Quattro giudici su cinque danno la vittoria a Konakbayev.
Uno scandalo.
La sera, assieme ad altri italiani, ci riuniamo nel ristorante dove avremmo voluto festeggiare l’oro del ragazzo napoletano.
Solo verso la fine Patrizio ha un gesto di ribellione.
«Mi rifarò, lo batterò all’Olimpiade!».
Un’Olimpiade che lui rischia addirittura di non fare. Il dramma si verifica ai Giochi del Mediterraneo di Spalato ’79.
Oliva batte il marocchino Souhi nei quarti di finale. Una vittoria di routine, accompagnata da una strana atmosfera nel clan azzurro. Si respira un’aria di inquietante tensione. Nello spogliatoio lo trovo con la testa fra le mani e un’espressione di sconforto negli occhi.
«Dario, mi fa male l’orecchio, sento qualcosa di strano, come se qualcuno mi fischiasse dentro in continuazione».
È l’inizio di un’odissea che sembra non debba mai finire.
Una microlesione al timpano dell’orecchio sinistro mette a rischio la partecipazione ai Giochi di Mosca. Quaranta giorni di fermo imposti dalla struttura sanitaria della Fpi. Poi visite, controlli privati e federali.
Patrizio continua a crederci, a lottare.
Ai Giochi ci va, arriva in finale.
Per vincere l’oro deve superare proprio Serik Konakbayev, l’uomo che gli ha scippato l’europeo.
Anche il sovietico ha avuto problemi dopo quell’ingiusto verdetto. È incappato in una clamorosa sconfitta alle Spartachiadi, battuto nell’ultimo match tra grandi polemiche dall’armeno Akopkochjan. Si è ripreso in fretta. L’Unione Sovietica è arrivata seconda nella Coppa del Mondo vinta dagli Stati Uniti, ma Konakbayev ha sconfitto la grande speranza statunitense Lemuel Steeples. Un match durissimo, un verdetto giusto. A fine ’79 le classifiche mondiali vedono Oliva al primo posto, Konakbayev al secondo.
Di nuovo avversari, stavolta per giocarsi il titolo più importante. Si combatte a Mosca, in un’Olimpiade che ha subìto il pesante boicottaggio dell’Occidente sulla scia del ritiro degli Stati Uniti di Jimmy Carter, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan.
Italia, Francia e Gran Bretagna sono tra le partecipanti. Ma niente militari, né inno o bandiere. Tutti sotto l’egida dei cinque cerchi del CIO.
Quello della finale è un giorno di devastante tristezza. La bomba scoppiata nella sala d’aspetto di seconda classe della Stazione di Bologna ha lasciato corpi lacerati dalle macerie, cuori travolti da un’angoscia opprimente.
Scrive Sergio Neri sulle pagine del Corriere dello Sport-Stadio: “Naturale è la tentazione d’abbandonare ogni cosa nello sgomento di una così atroce giornata. Ma è nella luce di una vita che reclama, con uguale violenza il suo diritto, proponendo una speranza, che continuiamo a costruire un giornale che non rinuncia ai suoi doveri anche se vive, con i suoi redattori, le avventure di un giorno di sport con l’animo straziato e il cuore che va via”.
Napoli, 2 agosto 1980
Eccomi qui, in casa Oliva. In via Stadera, al secondo piano di una palazzina che si incastra tra il mattatoio, il cimitero e il carcere di Poggioreale.
Mancano dieci minuti all’inizio del match.
Mi avvicina Rocco, il papà di Patrizio.
«Ci sono dodici bottiglie di champagne in frigorifero. Se vince, qui succedono cose ’e pazzi».
Sono successe.
Siamo in quaranta, pressati in una stanzetta di quattro metri per tre. Un angolo intero dedicato ai trofei di Patrizio, un altro al televisore. Si fatica a respirare. C’è un caldo opprimente, si suda anche a pensare.
Rocco è muto.
Mario inganna attesa e tensione commentando i match che portano alla grande sfida.
Mamma Catena si è chiusa in cucina, affaccendata nella preparazione di non si sa bene cosa.
Tensione, tanta. Battute, poche.
L’arbitro caccia l’allenatore cubano.
«È sempre isso, chillo allucca troppo!».
Nell’aria c’è il timore che il furto di Colonia possa ripetersi. Prima della finale dei superleggeri, salgono sul ring il sovietico Demianenko e il cubano Herrera.
Si formano due schieramenti. Uno sostiene la tesi di Mario.
«Devono far vincere il russo, così si saziano, sennò so’ dolori ’e panza!».
L’altro sta con Sergio.
«E poi se gli piace ’o doce, come facimmo?».
Sergio, Tommaso, Giovanna e Maria aprono il coro. Un boato saluta il primo piano di Patrizio che riempie il televisore di casa.
Si comincia.
Urla, maledizioni, imprecazioni, incitamenti si accavallano e saturano l’aria. Un solo sorriso illumina la stanzetta. È quello di mamma Catena che continua a ripetere come un mantra la stessa frase.
«Quanto sei bravo, figlio mio».
Oliva vince d’autorità il primo round.
Nel secondo è Konakbayev a dettare ritmo e azione. La ripresa è sua.
Patrizio torna all’angolo, si siede. Franco Falcinelli, il ct della nazionale, gli grida in faccia qualcosa che riesce a scuoterlo.
«Fallo per Ciro!».
È il fratello morto prematuramente.
Come per incanto Patrizio ritrova energie che pensava di non avere più e decide che per tre minuti non sarà più l’attendista che tutti conoscono, non tirerà di fioretto. Fa una scelta che per lui rappresenta un’autentica rivoluzione. A volte bisogna rischiare, accettare il salto nel buio nella speranza di realizzare un sogno.
Si lancia in attacco, mulina le braccia, asfissia il sovietico con un’azione coraggiosa e pressante. Poi, aspetta il verdetto. E con lui aspetta tutta Napoli.
Mamma Catena crolla.
«Patrì, t’hanno derubato n’ata vota!».
Rocco è immobile, teso, fissa il video, si gira verso di me e pone una domanda senza pretendere risposta. Vuole solo riempire il tempo di parole, spera aiutino ad accorciare l’attesa.
«Come è andata?».
Sto zitto e lui continua a camminare.
Avanti e indietro, avanti e indietro.
Arriva finalmente il verdetto.
Lo speaker annuncia il risultato, l’arbitro tedesco Wolf va per alzare il braccio di Patrizio, ma il napoletano non c’è più. Si è genuflesso, bacia il tappeto, dedica la medaglia a Ciro. Ride, piange, salta, abbraccia il maestro Falcinelli.
Nella casa di via Stadera urlano tutti. Cose ’e pazze!
«Paatriìììì!».
Si affacciano al balcone e gridano la propria gioia.
Qualcuno porta lo champagne. Bagna vestiti, magliette, camicie, pantaloni. Neppure una goccia cade nei bicchieri. Per fortuna ci sono altre undici bottiglie in frigo…
Lo sguardo di mamma Catena è un miscuglio di antica malinconia e gioia straripante.
«Ha fatto tanti sacrifici poverino, se la meritava questa soddisfazione. Ho avuto paura che ripetessero lo scherzo di Colonia. Ma lui è un campione troppo grande per subire due furti!».
Casa Oliva è una bolgia. Dalla porta lasciata aperta entrano decine, a me sembrano centinaia, di persone. Abbracci, baci, mazzi di fiori per le signore. Tutti lì, a festeggiare la famiglia Oliva, quella che ha un figlio campione olimpionico.
Su via Stadera si ingrossa la colonna delle macchine in fila. La gente in strada è impazzita. Suonano i clacson, si affacciano ai finestrini delle auto e gridano.
«Pa-tri-zio! Pa-tri-zio! Pa-tri-zio!».
Il coro si fa sempre più forte.
Rocco e Catena rispondono a tutti, si affacciano al balcone, tornano dentro, non si rendono più conto di quante mani stiano stringendo, di quante guance stiano baciando.
Il suono ossessivo del telefono fa da sottofondo. Amici, conoscenti, parenti, notabili, pugili, giornalisti. Chiamano tutti.
Arriva una troupe televisiva.
La gente in strada strilla, reclama, vogliono mamma e papà in cortile. Catena e Rocco vengono trascinati ancora una volta sul balcone, salutano come una coppia reale, la folla li acclama.
Un lungo applauso, un altro coro di evviva. Poi le felicità si dividono. I genitori tornano nella casa dove hanno vissuto gioie, dolori, esaltazioni, paure e sofferenze. La folla si disperde per le vie della città dove sfoga l’amore per quel ragazzo che ha portato Napoli sul tetto del mondo.
La festa scoppia gioiosa e fragorosa. Sono tutti in strada a festeggiare. Tricolori e bandiere azzurre al vento. Qualcuno canta “Oliva, Oliva mio” sull’aria di ’O surdato ’nnamurato.
Poggioreale è in festa.
Il telefono continua a squillare, ma nessuno va a rispondere. Poi mamma Catena sbarra gli occhi, sorride, piange, grida.
«È Patrizio!».
Corre verso il telefono, alza la cornetta.
«È proprio lui!», annuncia al popolo gaudente.
Pianti, grida, la signora Catena riesce a capire ben poco di quello che il figlio le sta dicendo. Capisce però le uniche due cose che veramente le interessano.
Sta bene, domani sarà a casa.
Napoli, 3 agosto 1980
La sbornia è passata. La felicità ha contorni diversi. C’è spazio per i ricordi.
Dice mamma Catena.
«La boxe per Patrizio era quasi una malattia. Faceva il secondo anno dell’Istituto Tecnico e io lo tempestavo di raccomandazioni: “Patrì studia, lascia perdere la boxe. Quella non ti darà da mangiare”. Quando è morta mia madre, sono dovuta andare per otto giorni in Calabria. Patrizio ne ha approfittato per abbandonare la scuola. Al mio ritorno ha confessato: “Mammà, ho deciso. Sono fatto per la boxe”. Quell’anno ha disputato la finale del campionato novizi, e ha perso. Gli ho detto: Hai lasciato la scuola e non sei neppure un campione».
E lui, cosa le ha risposto?
«Per adesso».
Presto Catena si rende conto che il ragazzo campione lo è davvero.
«E allora è cominciata un’altra commedia. Lui si alzava alle 6 per fare il footing. Io, per fargli trovare tutto pronto, mi svegliavo alle 4. Insomma, ho fatto la vita da atleta anch’io».
Era forte, ma non a tutti piaceva. A Napoli c’era chi andava a vederlo sperando che perdesse.
In palestra l’ha portato Mario.
«All’inizio stavo attento a non fargli male, a farlo stancare senza colpirlo. Un giorno mi sono reso conto che le parti si erano invertite. A prenderle ero io. Abbiamo combattuto per cinque volte nelle stesse riunioni a Firenze, Milano, Bovino, Cecina e qui in via Stadera».
Signora Catena, suo figlio a chi dedicherà questa medaglia?
«Gli ho chiesto, in caso di vittoria, di dedicare il successo al fratello Ciro: un ragazzo sfortunato, è morto quando aveva appena quindici anni. Prima di ogni torneo importante, Patrizio trova conforto andando a visitare la tomba di Ciro. Una volta mi ha detto: “Attraverso la felicità che i miei successi sapranno regalarti, spero di farti dimenticare una minima parte del dolore che hai provato in quei momenti terribili”. È proprio per quel gran dolore che avevo insistito affinché lui non facesse la boxe. Ma lui mi ha risposto: “Mammà, contro il destino non si può nulla. Non sarà il pugilato a farti provare un altro dramma”. Ha avuto ragione, la boxe mi ha davvero dato un momento di felicità».
Il tavolo attorno al quale stiamo chiacchierando è sommerso dalle foto di Patrizio. Grandi, piccole, orizzontali, verticali. C’è spazio solo per lui.
Mi sbagliavo, la sbornia non è passata.
Napoli, 4 agosto 1980
La sede della Fulgor, dove Patrizio è entrato quando aveva dodici anni e pesava trentasei chili, è in uno scantinato sotto il livello della strada: al 419 di via Roma, altezza Santo Spirito, due passi da piazza Dante. La responsabilità tecnica è di un signore che ha scritto la storia di questo sport. Ha grandi occhiali da vista, lenti scure, un mezzo sorriso dipinto sul volto. Geppino Silvestri è un maestro che crea campioni, li accompagna verso la gloria. La frequentatrice più assidua della Fulgor? L’umidità. Clienti abituali: sorece grandi come gatti, anche se il mio amico e collega Franco Esposito preferisce scrivere: “grandi come conigli”. E Ciccio ha sempre ragione. Gatti o conigli, resta il fatto che i sorece non hanno neppure voglia di allenarsi.
I reumatismi sono un dono che la casa offre gratuitamente ai suoi frequentatori. Ogni due mesi quelli della Fulgor sono costretti a cambiare il tappeto del ring. Guantoni, sacchi, pere hanno vita breve.
Nella grotta adattata a palestra ci sono due stanze. Una per gli attrezzi, l’altra per saggiare l’abilità di tutti. Veterani e nuovi arrivati. Lì c’è il ring. I muri sono cadenti, lo stabile vecchio, «ma tutte le sere puoi star sicuro, ci troverai una quarantina di pugili in piena attività».
È qui che è nato il pugile Patrizio. Allenandosi in una grotta è diventato campione olimpionico.
Fiumicino, 4 agosto 1980
Oliva scende dalla scaletta dell’aereo con l’enorme Coppa Val Barker tra le mani.
«A tutto pensavo, ma non a vincere questa cosa qui. Ma li hai letti i nomi che ci sono scritti sopra? Benvenuti, Clay e per ultimo quello di Howard Davis. È incredibile!».
Gli chiedo cosa abbia detto a Konakbayev a fine match.
«Gli ho fatto i complimenti, gli ho detto: Sei un campione, vincerai a Los Angeles».
E lui cosa ti ha risposto?
«No, basta, con la boxe ho chiuso. Si vede che gli ho fatto perdere il vizio…».
Lo dice senza alterigia, né presunzione, solo con un po’ di malizia.
Nel suo bagaglio c’è una chitarra, un colbacco, qualche altro souvenir moscovita e un ricordo che gli sta a cuore.
Nascosto in una valigia, l’unica con il lucchetto, è custodito uno dei due guantoni della finale. Sopra c’è la dedica del maestro Franco Falcinelli. L’altro guantone è nel borsone dell’allenatore.
Lì la dedica è a firma Patrizio Oliva, lo Sparviero di via Stadera, quello che ha vinto l’oro a Mosca 1980.
(da ERAVAMO l’AMERICA di Dario Torromeo, 256 pagine, 15 euro, Absolutely Free editore)
