Il tennis secondo Adriano. Qui parla di Federer, Nadal, Laver…

Adriano Panatta assieme a Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Tonino Zugarelli e Nicola Pietrangeli è stato il protagonista di UNA SQUADRA, una delle più belle serie televisive degli ultimi tempi. Ironica, velenosa, ricca di contrasti e allo stesso tempo di armonia. Merito del regista Domenico Procacci e di chi quei giorni li ha vissuti e raccontati regalandoci un montaggio da applausi e tanti sorrisi. Adriano Panatta è uno a cui il tennis di oggi non piace tanto, ma non è un nostalgico. Il fatto è che lui adora il tocco, il gesto tecnico più che la fisicità. Molti anni fa, primavera inoltrata, Roma sotto una pioggia fastidiosa, ho parlato a lungo con lui. Ha risposto alle mie curiosità su Federer, Nadal, sul tennis di ieri e quello di oggi, sulle colpe dei maestri, sulla Coppa Davis e gli Internazionali. Insomma, sullo sport che regala emozioni. Vi ripropongo quell’intervista. Mi sembra che regga bene il tempo…

CDS

 “Solo una persona può decidere il mio destino,
e quella persona sono io”
(Orson Welles, Quarto potere)

Adriano, cosa non ti piace del tennis di oggi?
“Non amo i picchiatori. A parte Federer e Nadal giocano tutti uguale. La differenza la fanno quattro pallate a tutto braccio, a volte un po’ casuali. Prima dietro un punto c’era un’idea, un’invenzione, fantasia.”
Quale è stato il momento in cui tutto è cambiato?
“Quando è cambiato l’attrezzo. Le nuove racchette ti permettono di scegliere soluzioni tecniche che con quelle di legno non potevi neppure immaginare. E poi con queste tireresti forte anche tu.”
Nella tua epoca c’erano più variazioni tattiche?
“Giocavamo su ritmi più lenti, potevamo prenderci il lusso di pensare. Oggi tirano forte, è più facile.”
Federer è l’eccezione?
“Non ho mai visto uno giocare così bene, Laver compreso. Gli ho visto fare cose che pensavo fossero impossibili per un essere umano. Ha una forza di polso spaventosa. In molti, anche quelli che vincono tanto, non giocano bene a tennis. È un fenomeno che è sempre esistito, Borg compreso.”
Adriano, cosa ti piace di Federer?
“Sa giocare a tennis. Non vorrei essere frainteso: sono pochi quelli capaci di esprimere un tennis di simile talento. Dico Lendl e Sampras tra tutti quelli che ho visto.”
Come si manifesta sul campo il talento dello svizzero?
“Dal modo in cui colpisce la palla, dal cambio di ritmo, dalle soluzioni tecniche e tattiche che decide di adottare. Colpisce la palla con violenza, ma lo fa sempre nella maniera giusta. In un modo classico, ma nello stesso tempo moderno. Si è parlato a sproposito della scuola svedese, di quella spagnola. Federer è svizzero, viene dunque da una nazione che non ha una tradizione alle spalle. Lui gioca divinamente, come si deve fare: la palla davanti al corpo, non dietro come avviene spesso oggi. Gioca in lift, in back. Sa come e dove tirare da ogni parte del campo. È un grande campione.”
Altri riferimenti per spiegare meglio quali sono quelli che a tuo giudizio sanno ”giocare a tennis”?
“Dico Laver, Sampras, ma anche Agassi. Insomma è questo il modo di conquistare la gente. Io, tranne nelle occasioni in cui lo faccio per lavoro, mi siedo davanti alla televisione solo se c’è lui in campo. Ho ancora negli occhi la partita contro Hewitt agli US Open del 2004. Non ho mai visto giocare così, è quasi impossibile farlo.”

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Perché oggi questo fenomeno è più evidente?
“Da quando il mercato del tennis internazionale si è allargato, si gioca in continuazione. Fa poca differenza arrivare in forma o meno nei tornei più importanti. Lo scopo è guadagnare tanto e fare più punti possibili. Questo ha cambiato il gioco, ma anche il carattere dei giocatori. Li ha resi più chiusi, più introversi.”
Il modo di giocare così simile in tanti tennisti moderni dipende solo dalle racchette?
“I maestri non insegnano tutto ai bambini, insistono solo sulla specializzazione di quei colpi che potrebbero essere determinanti nella carriera professionistica. Così il ragazzo a un certo punto non cresce più e scopre che gli manca qualcosa. Sono bravi di dritto e rovescio. Tirano in allenamento quello che noi tiravamo per fare un passante vincente in partita. Ma se devono ammorbidire una palla, cappottano.”
Tra quelli che “sanno giocare a tennis” c’è dunque solo Federer?
“No. Nadal è un grande campione, come Borg. Come lui ha avuto un’evoluzione tecnica notevole. Col tempo ha imparato a giocare meglio a rete, a muovere meglio la palla da fondo campo. Ha capito che per vincere sempre doveva limare i suoi difetti.”
E gli altri?
“Ogni giocatore di livello ha per talento e predisposizione alcune qualità. Quello che gli manca dovrebbe allenarlo. L’ha fatto Nadal, l’ha fatto Borg, l’ha fatto Wilander, l’ho fatto io.”
Il problema dunque sono gli allenatori?
“Vedo deficienze tecniche anche tra giocatori forti che, sia chiaro, rimangono comunque forti.”

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È un discorso che vale per tutti?
“No. Guardate Nadal. È molto migliorato rispetto al passato, pur essendo da tempo un campione. Segno che chi lo allena è intelligente e lui è stato così intelligente da seguirlo sul discorso tecnico.”
Perché è così difficile intraprendere questa strada?
“Il 90% dei giocatori non ama lavorare sui difetti. E il tecnico, che ha nel giocatore il suo datore di lavoro, certi tipi di allenamenti glieli evita.”
Quale è la soluzione?
“I giocatori devono capire che un tecnico che li fa lavorare sui loro punti deboli è un tecnico bravo. L’allenatore deve avere carisma e capacità per spiegare sempre i perché del suo lavoro. I tecnici devono liberarsi del concetto che l’unico modo di vivere il tennis oggi sia quello di tirare forte. Paolo Bertolucci, quando allenava Pistolesi e cercava di fargli fare certe cose e non ci riusciva, parlo di una palla corta, di un chop, di un diagonale, insisteva per quanto possibile. Bisogna lavorare sulle pecche. È l’unica soluzione per migliorare.”

Adriano Panatta, con l’aiuto della televisione, ha il merito di avere dato una spallata al mondo del tennis di casa nostra. Ha buttato giù il vecchio edificio e creato una nuova realtà. Più dinamica, popolare, universale oserei dire.
Era l’estate del ‘76. La società stava cambiando. I diciottenni avevano votato per la prima volta, il Partito Comunista di Enrico Berlinguer aveva ottenuto uno straordinario successo e la Democrazia Cristiana aveva faticato a conservare il suo ruolo di partito di maggioranza.
Il mito dell’epoca si chiamava Nicola Pietrangeli ed era un elegante signore, nipote di un impresario edile e figlio del concessionario della Lacoste per l’Europa. Tennista per passione. Applausi, gesti bianchi, pacche sulle spalle dello sconfitto. Nicola aveva avuto il merito di aprire la strada, era stato il primo a imporsi come personaggio capace di uscire dai confini dello sport.
La televisione a metà anni Settanta aveva avuto il grande merito di rendere popolare il tennis. Aveva portato il gioco dentro le nostre case. Anche le nonne sedevano davanti a quella scatola magica, assieme alle casalinghe, ai giovani studenti. Tutti assieme si erano lasciati coinvolgere da quella stregoneria chiamata tifo.
I successi di Panatta erano accompagnati dalla passione. Sulle tribune degli stati il coro Aaa-dria-no, Aaa-dria-no era una sorta di amorosa, ossessiva colonna sonora. La gente assisteva allo spettacolo e si sentiva partecipe, in piena sintonia con l’eroe.
Dopo essere stato lo sport dei nobili, dei benestanti, il tennis ora apparteneva anche anche a chi censo e illustri natali non aveva. Parlare di riscatto sociale, mi sembrerebbe eccessivo. Anche se potrebbe esserci una percentuale di verità.
La televisione, oltre alla popolarità, aveva portato i soldi. Si firmavano i primi contratti milionari di sponsorizzazione. I club aprivano le porte ai ragazzi, ai signori di mezza età. I circoli subivano un’autentica trasformazione.
Il passaggio da Nicola Pietrangeli a Adriano Panatta è stato un salto verso il futuro. E non a tutti è piaciuto. La tribù dei puristi vedeva il tennis involgarito dalla contaminazione con una folla sempre più grande. Meglio custodirlo nella nicchia di pochi eletti che offrirlo a una divulgazione di massa che lo stava privando della nobiltà. Dimenticavano che le emozioni hanno sempre arricchito gli animi. Il passaggio da sport di élite a popolare aveva fatto conoscere nuovi orizzonti, conquistare altri mercati. Ora il tennis, anche in Italia, aveva un respiro mondiale.
Quella ’76 era diventata con il passare dei mesi una stagione irripetibile. Mai un giocatore italiano aveva messo assieme successi così importanti, mai un altro sarebbe riuscito a imitarlo.

Adriano, hai cominciato a Roma, vincendo gli Internazionali.
“Una vittoria casareccia, una cosa che apparteneva a noi romani. Nel senso che sentivo attorno odori, sentimenti, passioni che conoscevo. Nessuno era più a casa di me al Foro Italico. Per questo ho sentito quel successo come qualcosa di intimo, meno pubblico degli altri. Su quei campi avevo vissuto la mia giovinezza. Andavo a palleggiare contro il muro della Pallacorda, lì giocavo con i miei amici. Lì ho capito cosa fosse il tennis. Della finale ricordo l’ultimo punto. Sembrerà strano, ma io di quegli undici match point annullati ne ricordo appena uno. Un passante vincente. L’immagine successiva è quella del trionfo”.

Poi è arrivato il Roland Garros.
“La domenica vincevo al Foro, il martedì ero in campo a Parigi. Allora Internazionali e Roland Garros erano attaccati. I francesi mi volevano bene. A Wimbledon la gente è innamorata della loro manifestazione, del gioco in sé. Il pubblico parigino è sportivo, competente, esperto. Ama i giocatori, predilige quelli che attuano una tattica brillante. Li preferisce ai regolaristi. In quel periodo solo due attaccanti vincevano sul rosso parigino: Noah e io. Su quei campi sono stato l’unico a battere Borg, l’ho fatto per due volte. Come ci sono riuscito? E che mai poteva farmi? Per perdere il punto dovevo sbagliare io. Anche se a Roma nel ’78 sono stato sconfitto pur avendo giocato bene. Ma gli sono serviti cinque set in finale per riuscirci. Prima dell’ultima partita contro Solomon mi sentivo tranquillo. Ero sicuro di vincere. La sfida in semifinale contro Dibbs era stato il mio miglior match del torneo. Contro Solomon ho avvertito un po’ di stanchezza. Ma non ho mai avuto grossi problemi”.
Con le vittorie arrivava il numero 4 nella classifica mondiale.
“La cosa a cui tenevo di più era essere il numero 1 sulla terra battuta. Vivevo in un’epoca in cui su quella superficie c’erano fenomeni come Borg, Orantes, Ramirez, Solomon, Dibbs, Nastase. E non potevi certo dirti fortunato se nel sorteggio pescavi Connors o Ashe. Ma in quel magico ’76 mi riusciva tutto facile”.

L’ultimo colpo da mago, la vittoria in Coppa Davis assieme a Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli. Capitano non giocatore Nicola Pietrangeli.
“Non volevano che andassimo in Cile, dove il dittatore Pinochet aveva preso il potere tre anni prima e il presidente Allende era stato ucciso. Il “No al Cile” era strillato in molte piazze. Chi si diede molto da fare per rendere possibile quell’avventura fu Nicola Pietrangeli. Ma il caso era politico e toccò a un politico risolverlo. Sembra sia stato Enrico Berlinguer a convincere tutti che sarebbe stato un errore lasciare al dittatore Pinochet il vanto del trionfo sportivo. A Santiago si avvertiva un clima pesante. Non bisognava essere dei geni per capire che eravamo in un Paese che soffriva l’oppressione del regime. Chi vive un grande evento sportivo spesso si muove in una relatà che non esiste. È tutto ovattato, ti sembra di muoverti in un paradiso. Ma io sono sempre stato curioso, chiedevo informazioni ai giocatori cileni e avevo un quadro più preciso di quello che ci stava attorno. Una finale facile. Loro avevano solo il doppio forte. Ma anche Paolo e io eravamo tra le migliori coppie del mondo. Un po’ di sofferenza e la Davis è stata nostra. La vera impresa l’abbiamo fatta contro l’Australia. Newcombe e Roche erano clienti scomodi. Siamo riusciti a superarli e poi siamo andati in Cile a prenderci la Coppa”.

Una spallata al mondo un po’ nobile e molto impaurito di un tennis che temeva di lasciarsi travolgere da un’ondata che non sarebbe riuscito a controllare. Ma siamo ancora qui, 46 anni dopo, a parlare di quei giorni. Adriano ha conservato la sua popolarità e nessuno sul campo è ancora riuscito a imitarlo.
Internazionali, Roland Garros, Davis e numero 4 del mondo.
Prendetelo, se potete.

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