Dillian Whyte, padre a 13 anni. L’infanzia nelle gang, tra coltellate e colpi di pistola

Dillian Whyte è un omone di 193 centimetri per 114 chili.
Ha lo sguardo triste di chi si porta dietro i drammi di un’infanzia difficile.
Il suo compagno più fedele è un avvocato che ne gestisce i rapporti con il mondo intero. Con i manager, gli organizzatori, gli Enti mondiali. Ha una denuncia sempre pronta. Ha attaccato la commissione antidoping, il World Boxing Council, e chiunque altri si sia messo tra il suo cliente e la realizzazione del Grande Sogno.
Dillian Whyte è passato attraverso le tempeste della giovinezza con quelle labbra all’ingiù, gli occhioni sbarrati e lo sguardo a mezza via tra chi ha troppo coraggio e chi ha troppa paura.
Ha avuto un brutto avvio lunga la strada della vita.
Piccolo, ti devo lasciare. Vado a Londra per un futuro migliore. Non per me, ma per tutti noi”.
Così gli parlava la mamma, lì a Port Antonio (in Giamaica) dove Dillian è nato. Ma il bambino non capiva, aveva appena due anni, sapeva solo sorridere. La mamma lo lasciava a una famiglia che si prendeva cura di lui per molto tempo. Era un ragazzino ribelle, un bullo che si batteva con i bulli. Capace di cominciare una rissa solo per il gusto di strappare un sandwich dalle mani di quel tipo che si vantava di essere il capo del gruppo.
A forza di tirare pugni si era creato una brutta nomea.
“Meglio non litigare con lui” dicevano i compagni di strada.
Lo hanno accoltellato tre volte.
Due volte gli hanno sparato.
Ha conosciuto l’ospedale e la galera.
Un ragazzo senza futuro, con una speranza di vita dai confini ristretti.
Niente illusioni, niente istruzione, niente famiglia.
La sua casa era il calore di una gang, ne condivideva ogni follia.
Poi è volato a Londra, dopo dodici mesi era già a padre. Aveva 13 anni.
Quelli che pensano alla boxe come a un inferno, a un covo di violenti popolato da disperati, dovrebbe avere studiare storie come quella di Dillian Whyte. Perché lui nel pugilato è entrato da violento, disperato, irrispettabile cittadino nell’inferno della vita. E ha cambiato il corso delle cose. Una palestra, un paio di guantoni, un maestro e la voglia di diventare un uomo senza ombre.
Ce l’ha fatta.
Il 23 aprile salirà sul ring dello stadio di Wembley. Sugli spalti ci saranno 94.000 spettatori, le televisioni trasmetteranno il match in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in altri Paesi di questo universo difficile da capire. In palio ci sarà il mondiale dei pesi massimi WBC.
Sfiderà Tyson Fury, il protagonista unico della vicenda fino a questa mattina, quasi dovesse combattere da solo, o al massimo contro un’ombra impalpabile.
Whyte aveva deciso di tacere. Firmato il contratto, che prevedeva un compenso per lui di 8,2 milioni di dollari, si era rifugiato in un campo di allenamento in Portogallo. Lontano dai clamori del match. Aveva disertato la conferenza stampa, non aveva rilasciato interviste, niente tv e niente giornali. Silenzio assoluto.
Poi, ieri, all’improvviso, un messaggio urlato in faccia a Tyson Fury attraverso il profilo Instagram di Dillian. Il guanto di sfida. Vuole un ruolo nello spettacolo.
Solo gli amici di Whyte e chi odia Fury (e qui il numero aumenta di molto) pensano possa farcela. I bookmaker lo indicano come chiaro sfavorito, un underdog quasi senza speranza: danno a 1.16 Tyson Fury (1.16 dollari per ogni dollaro puntato su di lui) e pagano Dillian Whyte cinque volte la posta. Ci sono pochi argomenti a suo sostegno se non la retorica delle frasi fatte: nei pesi massimi basta un pugno…
E andate a dirlo proprio a lui che nella prima sfida contro Povetkin stava dominando, ma poi è crollato al tappeto. Guardatelo su YouTube, riguardatelo ancora. Il montante sinistro con cui il russo ha chiuso l’incontro è stato perfetto, fenomenale. Una botta devastante con cui ha risolto un match che si era decisamente messo male per lo lui.
Per due volte Povetkin era andato al tappeto nel round precedente. Un diretto destro, doppiato da un gancio sinistro aveva provocato il primo kd. Un montante sinistro, era stato il responsabile del secondo. Credevo di avere davanti il Dillian Whyte buono, almeno così mi era sembrato quello che si era presentato a Brentwood. Aveva lasciato il fratello cattivo in Arabia Saudita. Sarebbe stato lui a sfidare il vincente del terzo combattimento tra Tyson Fury e Deontay Wilder.
Era in grande spolvero. Attento in difesa, protagonista per quattro round grazie all’uso magistrale del jab sinistro, alla potenza del diretto destro. Ma anche all’attenzione con cui conduceva l’incontro. Fino a trenta secondi del quinto round aveva dominato la sfida. Poi, la svolta.
Quel ricordo se lo è portato dietro fino alla rivincita, arrivata a restituirgli fiducia in sé stesso. Ma adesso Dillian avrà davanti Tyson Fury. Imbattuto, vincitore di Wladimir Klitschko e Deontay Wilder.
L’ex bulletto giamaicano, sabato 23 aprile, ricorderà la sua infanzia prima di salire sul ring e capirà che ha fatto tanta strada, ma ancora non ha raggiunto la meta.

Un pensiero su “Dillian Whyte, padre a 13 anni. L’infanzia nelle gang, tra coltellate e colpi di pistola

  1. Sono un appassionato di boxe, da qualche anno mi sono riavvicinato a questo sport, che oggi ha perso lo smalto di un tempo,ma che conserva ancora il fascino che lo contraddistingue dalle altre discipline. Purtroppo apprezzo molto i suoi articoli, ma non mi entusiasma affatto oggi il panorama dei massimi,tutto incentrato su questo Fury,che fino ai tempi di Tyson è Holyfield probabilmente non sarebbe neanche rientrato nel ranking per un mondiale.

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