
Questo è un articolo per chi ama le storie di una volta, per chi brucia di passione per il pugilato. Due interviste e un racconto lungo, roba da maratoneti, richiede impegno. Qui si parla di una famiglia legata da sempre alla boxe, i Duran. Qui si narrano le vicende di Carlo, Massimiliano e Alessandro Duran. Qualcosa lo ricorderete per averlo già letto in questo blog, altre cose vi faranno fare un salto indietro nel tempo. Buona lettura.

ALESSANDRO DURAN, APRILE 1998, INTERVISTA
Quando hai sentito per la prima volta la parola boxe?
«Quando sono nato»
E i primi guantoni, quando sono arrivati?
«Avevo un anno, ci sono le foto a testimoniarlo. La boxe in casa Duran è sempre stata una parola magica. Papà era un emigrante argentino, tutto quello che ha avuto nella vita, l’ha ottenuto grazie al pugilato»
Così tu ti sei sentito costretto a salire sul ring.
«No. Io sono diventato pugile per curiosità. Avevo tre anni e papà mi portava già in palestra. Lui era il mio idolo, il campione da venerare. La boxe era al massimo dello splendore, per gli amici vederlo combattere era diventato un rito. Lo guardavo allenarsi e mi dicevo: da grande farò il pugile anche io. Ma, probabilmente, dentro di me non ci credevo molto. Massimiliano in palestra, dal maestro Strozzi, l’ha portato mia madre: “E’ grande, grosso, robusto, gli faccia fare sport”. È stato guardando mio fratello che mi sono deciso. Ero curioso di capire perché tutti quelli della mia famiglia amassero questo sport. Avevo 14 anni, ho provato. Dopo 19 anni sono ancora qui a fare a cazzotti»
Papà, ovviamente, era entusiasta della scelta.
«Era contrario. Pesavo 46 chili, non riuscivo neppure a fare il peso mosca. E poi c’era il mio carattere. Per strada, quando scoppiava una lite ero il primo ad attaccare. Papà diceva: “Questo è matto, non ragiona, finirà per farsi ammazzare. Non voglio vedere mio figlio in manicomio”. Poi è entrato in palestra e mi ha visto per la prima volta fare i guanti. Ha capito che si era sbagliato: boxavo arretrando»
E tu, l’hai visto spesso combattere?
«Cinque o sei volte. Ma sempre in televisione. Diceva che se fossi stato a bordo ring sarebbe stata una sofferenza troppo grande per lui e la mamma. Papà non ce l’avrebbe fatta a boxare con i suoi figli in platea. E così mi mettevo davanti alla tv. Quando sentivo la sigla dell’Eurovisione mi veniva il batticuore, sapevo che dopo qualche minuto sarebbe apparso mio padre. È stato un grande campione. Un medio alto 1.85 a quei tempi era una rarità. E poi aveva classe, intelligenza. Tutti lo stimavano. È morto da sette anni, ma la gente ancora mi ferma per strada e mi parla di lui»
Eravamo rimasti al momento in cui hai deciso di diventare un pugile. Qualche match da dilettante, poi l’esordio al professionismo. Un esordio diverso dagli altri.
«È stato il momento più bello della mia vita sportiva. Avevo 18 anni, appena 8 incontri da dilettante alle spalle, e non potevo combattere da pro’. Siamo andati contro tutto e tutti. Io e papà abbiamo preso l’areo per l’America. Abbiamo passato 40 giorni a Chicago a casa dei nonni di mamma. Mi allenavo in una palestra che si trovava nella zona più brutta della città. Cinquanta pugili che si picchiavano sognando il successo. La fame la toccavi con mano, quando vedevi sparring che appena presi i 5 dollari per due riprese scappavano a comprarsi qualcosa da mangiare. C’era l’anima della boxe lì dentro. Ho combattuto contro un tizio che aveva 127 match da dilettante, 119 vittorie. È stata dura, ma ce l’ho fatta. È stata l’esperienza più importante della mia carriera»
Hai ricordi meravigliosi di tuo padre sul ring, cosa mi racconti dell’altro campione di famiglia: tuo fratello Massimiliano.
«Quando Momo combatteva, mi sentivo male. Non dormivo la notte prima del match, mi veniva da vomitare. Succede sempre così quando sei all’angolo di una persona a cui vuoi bene. Anche se lo conosci perfettamente, non puoi essere sicuro di quello che gli passa per la testa. E così in preventivo metti anche la possibilità che possa perdere. Cosa che non rientra mai nei tuoi pensieri quando sul ring ci sei tu»
La sconfitta. Una parola che fa paura, cosa significa per un pugile?
«E’ un dramma. I giorni che seguono una sconfitta sono un tormento. Nella boxe non sai mai quando avrai la prossima occasione. Non c’è un calendario a garantire le tue ambizioni. Per uscire da questa situazione devi fare appello a tutto il tuo orgoglio, alla forza morale. L’intelligenza deve aiutarti a capire dove hai sbagliato o ad ammettere che chi ti ha battuto è stato migliore di te»
Anche questo te l’ha insegnato tuo padre?
«Da papà ho imparato il significato della parola lealtà, a non avere paura di dire sempre quello che penso. Mi ha lasciato un grande rispetto per questo sport. È stato un atleta serio: in attività non l’ho mai visto andare a letto dopo le 22.30, entrare in un bar, saltare un allenamento»
Una famiglia unita la vostra, una famiglia in cui tu eri un po’ il “cocco” di tutti.
«Ero il figlio più piccolo. Massimiliano era più grande e più grosso. Ma “cocco” no, è stato mio fratello quello che papà ha seguito di più»
È stata dura essere i “figli del campione Carlos Duran”?
«Sicuramente lo è stato all’inizio delle nostre carriere per i continui paragoni che la gente voleva fare a tutti i costi. Poi però avere vicino un uomo esperto, un grande professionista, è stato di enorme aiuto ed ha superato quello che avevamo pagato in emozione o in complessi nei primi tempi dell’attività. Papà ha sempre avuto fiducia in me, continuava a ripetere: “Se avessi avuto le mani di Alessandro oggi avrei in bacheca la cintura mondiale”. Per Massimiliano la morte di papà è stata una tragedia come figlio ed un dramma come pugile. Lui era meno istintivo di me, più costruito. Papà lo teleguidava dall’angolo. La sua morte ha accorciato la carriera di mio fratello»
Una volta Massimiliano mi ha detto che gli capitava di parlare con Carlos anche dopo che lui era morto. Tu hai ugualmente un legame così forte col ricordo di papà?
«Da sette anni, tutte le mattine, quando torno dal footing vado al cimitero. Finisco la mia ginnastica davanti alla tomba di papà. Nei primi tempi le vecchiette che erano lì a pregare i loro morti mi hanno preso per matto, oggi sono le mie migliori tifose»
Dopo tanto parlare del papà, vogliamo dire qualcosa anche su mamma Augusta?
«È eccezionale. Da 38 anni è sempre lì a bordo ring a soffrire per i suoi cari. Il nostro è un ambiente affascinante, ma difficile. Non ci si scambia carezze. Lei ci ha sempre lasciato libertà di scelta. Seguiva papà tifando per lui, agitandosi sulla poltrona a bordo ring. Con noi a vincere è la paura. Un figlio ti crea ansie continue. Se ne sta lì in silenzio. Per papà era anche una tifosa, per noi è sempre e solo la mamma. È normale che sia così»
Carlos ripeteva spesso che Augusta è un “comandante”. Cosa voleva dire con quella parola?
«Che in palestra era lui a comandare, ma in casa le cose cambiavano. È stata lei che si è presa cura delle nostre vite. A volte è stata anche la mamma di mio padre»
La paura. Mike Tyson dice che il pugile che non ce l’ha è un pazzo che rischia continuamente la vita.
«Io dico che chi non ce l’ha è un incosciente. La boxe è uno sport per uomini duri, dall’altra parte c’è un tizio che ti vuole picchiare e tu non devi permetterglielo. Chi non ha paura, diciamo meglio: chi non ha rispetto per quello che fa e per il rivale che affronta, vuole dire che è arrivato al capolinea. Devi avere rispetto per il tuo avversario, così lo avrei anche per te stesso. Non puoi mentire, il bluff non fa parte di questo sport. Il ring è come la vita: alla fine devi rendere conto di quello che hai fatto. Solo che nella vita non sai quando dovrai farlo, nel pugilato dopo 36 minuti c’è un giudizio a cui non puoi sfuggire»
E quale sono le altre doti che un pugile non si può permettere di non avere?
«Il coraggio. Ci sono bulletti che vengono in palestra e sul ring scappano come autentici fifoni. Ma attenzione: il coraggio deve sempre essere accompagnato dalla ragione. Altrimenti diventa stupidità»
Quale è la differenza più grande dai tempi in cui combatteva Carlos e oggi?
«Erano altri momenti, un’altra epoca. La boxe coinvolgeva e appassionava tutta l’Italia. Assieme a calcio e ciclismo era lo sport più popolare. Logico dunque che le dimensioni dei personaggi fossero diverse. Quando combatteva papà era molto più difficile arrivare al mondiale: c’erano solo otto categorie e le sigle non erano così tante come oggi. Ma allora si guadagnavano anche molti più soldi. Papà, anche senza conquistare il titolo mondiale, ha guadagnato in carriera dieci volte più di noi»
I Duran. Dicono che siate gente con cui è difficile avere a che fare
«Dicono che abbiamo un carattere difficile. La verità è che diciamo sempre quello che pensiamo e a volte questo crea dei problemi. Ma io a 33 anni sono felice di non essere ancora sceso a compromessi. E poi: la smettano di dire che siamo due figli di papà. Abbiamo lottato duramente per ottenere quello che siamo riusciti a conquistare. Massimiliano ha vinto il mondiale contro un avversario del valore di Carlos De Leon. Io ho vinto il titolo a 31 anni. Ci provino gli altri»
Abbiamo passato in rassegna l’intera famiglia, ci siamo dimenticati di parlare di Anna Caterina: tua moglie.
«Mi sono fidanzato a 21 anni, avevo già fatto dieci match da professionista. Quando sono tornato a casa con la lettera della Federazione che mi comunicava la nomina a sfidante del titolo italiano, ho visto Anna Caterina piangere. È stata l’unica volta. Mi ha aiutato nei momenti più bui»
E di te come pugile cosa pensa?
«Anche lei crede, come faceva la mamma col papà, che io sia invincibile»
Da 38 anni i Duran hanno attraversato da protagonisti la storia del pugilato italiano. Quando ti ritirerai, chi prenderà l’eredità?
«Massimiliano ha una bambina. Noi aspettiamo un figlio, ma ancora non ne conosciamo il sesso. Se sarà maschio e me lo chiederà, farà il pugile. Ma dovrà avere talento e voglia di sacrificarsi. Io preferirei che giocasse al calcio, facesse atletica leggera o nuoto. Ma non ostacolerò le sue scelte. Dovrà però dimostrarmi di prendere sul serio questo sport. La boxe non è un gioco ed essere un Duran non è facile»

MASSIMILIANO DURAN, APRILE 2020, INTERVISTA
Il telefono suona due sole volte, prima che arrivi il terzo squillo Massimiliano ha già la cornetta in mano.
Dimmi Rocco.
“Sapevi che avrei chiamato?”
Lo speravo.
“Ho una grande notizia per te”.
Dimmi Rocco.
“Prova a indovinare”.
Il titolo europeo?
“Sali”.
Non dirmi che è il mondiale.
“E invece te lo dico. Hai la possibilità di fare il titolo. Hai un’ora di tempo per decidere. Prendere o lasciare”.
Ti richiamo.
Cinque minuti dopo Carlo torna a casa.
Papà, ha chiamato Rocco. Posso fare il mondiale.
“Te la senti? Ne sei convinto?”
Certo.
“E allora andiamo a prenderci questo titolo”.
È nata così la grande avventura di Massimiliano Duran.
La telefonata che gli ha cambiato la vita partiva da Genova, destinazione Ferrara. Era la tarda primavera del 1990.
Due mesi dopo, il 27 luglio di quell’anno: venti giorni dopo Italia ’90, si batteva sul ring di Capo d’Orlando contro il grande Carlos De Leon.
Ciao Massimiliano, vogliamo parlare di quella notte?
Volentieri Dario, comincio dicendoti come mi sentivo dopo quella telefonata di Rocco Agostino. Mi sembrava di essere protagonista di un sogno.
Se chiudi gli occhi, quale è la prima immagine che ti torna alla mente?
Quella di un signore che dal palazzo accanto all’hotel dove alloggiavo in attesa del match a Capo d’Orlando, mi ha visto e salutato. Due minuti dopo ero circondato da una marea di ragazzi, nell’edificio vicino c’era una scuola e loro volevano conoscere lo sfidante al titolo.
Altri tempi, altra popolarità per il pugilato.
Il match era trasmesso in diretta da Rai2, telecronista Mario Guerrini, interviste di Franco Costa. Stadio pieno.
Nello spogliatoio, prima dell’incontro, sia tu che Carlo avete detto che eravate sicuri della vittoria.
Il mio obiettivo era quello di diventare campione italiano. C’ero riuscito, poi avevo avuto questa enorme fortuna. Non potevo sprecarla. Sapevo che sarebbe stato un match difficile, De Leon era un campione con grande esperienza. Ma ero preparato a tutto. Papà mi aveva detto molte cose, mi aveva raccontato dei trucchi che i pugili usavano sul ring. Mi aveva messo in guarda sulle ditate negli occhi e i colpi alla gola. Non aveva tenuto delle lezioni, mi aveva raccontato queste storie mentre mangiavamo. Come se nulla fosse. E puntualmente il portoricano mi aveva fatto vedere in concreto cosa significasse subire quelle scorrettezze. Ero preparato. Mi allenavo a Bogliasco assieme a tanti campioni. Vedevo gli altri andare a combattere per un titolo e spesso tornare vincitori. Mi sentivo parte di una scuderia importante. Ero convinto di vincere, di farcela. Non potevo sciupare un’occasione del genere. Mi sentivo in grado di accarezzare il cielo, di toccare il fuoco senza farmi male.
Carlos De Leon aveva disputato quindici titoli mondiali, tu avevi fatto in tutto quindici match. Lui era stato più volte campione, aveva una borsa da 500.000 dollari in arrivo per una sfida con George Foreman, era più esperto e maturo. Perché eri così sicuro di farcela?
Non è che fossi certo in assoluto. È che l’avevo visto combattere e mi ero fatto l’idea che se lo avessi preso in velocità, se avessi usato il mio sinistro come sapevo, se avessi avuto le gambe per reggere il ritmo delle dodici riprese, sarei potuto scendere dal ring da campione.
Alla fine è andata proprio così, anche se la conclusione non è stata quella immaginata.
Ho vinto per squalifica all’undicesima ripresa. Lui era già stato scorretto in quel round, mi aveva buttato in terra con una spinta. L’arbitro Logist aveva trasformato quella scorrettezza in un knock down e mi aveva contato. Poi era andata anche peggio. Dopo il suono del gong che decretava la fine della ripresa, con l’arbitro in mezzo, lui mi aveva colpito in faccia con un gancio destro. Io avevo guardato Logist e avevo visto che non aveva intenzione di fare niente neppure quella volta. Allora ho pensato che mettendo il ginocchio al tappeto avrei potuto farlo ammonire, così avrei pareggiato il conto. Ma in quel momento si è scatenato l’inferno.
Sono volati sul ring chili di spaghetti, una scena che è stata mandata in onda dalle televisioni di tutto il mondo.
È vero, a ripensarci mi viene da ridere. Uno degli sponsor aveva fatto distribuire un pacco di spaghetti per ogni spettatore. La gente, sentendosi tradita, ha manifestato in quel modo la sua disapprovazione.
Campione del mondo per squalifica, al termine di un match in cui eri comunque davanti nei cartellini dei tre giudici.
Era andato tutto come avevamo previsto. Ero avanti di due e tre punti, il terzo aveva il pari. Per il verdetto è stata determinante la mediazione dell’avvocato Antonio Sciarra, all’epoca alla guida del professionismo. Ha parlato con l’inglese Clark, il rappresentate del Wbc, e sono arrivati alla decisione più giusta. Altri dirigenti, altri tempi.
Carlo dopo il match mi diceva che avrebbe voluto portarti negli Stati Uniti, invece non è andata così.
Il piano era quello. Prima una difesa a Ferrara contro Anaclet Wamba, in quello che sarebbe stato il mio ultimo match in Italia. Poi la sfida contro Thomas Hearns negli States. L’accordo era già stato raggiunto. Lui voleva vincere un’altra corona dopo quelle dei welter, superwelter, medi, supermedi e mediomassimi. Io avrei preso una borsa da un milione dei dollari. La mia vita sarebbe completamente cambiata.
E invece non è andata così.
La mia vita è cambiata, ma non nel senso che avevo pensato. Papà è morto e io ho visto saltare tutto per aria. Ero arrivato troppo in alto per gestire tutto da solo. Non sapevo come fare, mi mancava quella guida che avevo sempre avuto. Non ho avuto la capacità di tirarmi fuori da quella situazione. Ho sofferto un casino, chi avevo attorno ne ha approfittato e io non mi sono neppure difeso.
Cosa è accaduto?
Borse che cambiavano in continuazione, match che venivano spostati senza informarmi. Cose normali fuori dal ring, ma io non ero preparato ad affrontarlo. Per me era qualcosa di insostenibile. Ci sono rimasto così male che quando ho smesso di fare il pugile ero disgustato dalla boxe, sono rimasto un anno senza neppure mettere piede in palestra.
Eri molto legato a tuo padre, del resto tutta la tua famiglia è molto unita. Lasciando un attimo tranquilli mamma Augusta e tuo fratello Alessandro, dimmi: quali sono le cose più belle che Carlo ti ha detto da uomo e da pugile?
Da pugile, una volta alla fine di un allenamento a Bogliasco, mi ha detto: “Massimiliano sono contento, adesso sei forte e maturo. Andrai lontano”. È stato grande. Da uomo mi ha detto una cosa che mi ha profondamente toccato: “Ti ringrazio per quello che stai facendo per tuo fratello Alessandro, non ti rendi neppure conto di quanto tu lo stia aiutando”. Ero già campione del mondo, probabilmente se mi fossi montato la testa e avessi fatto il fenomeno lui ne avrebbe risentito.
Di Alessandro sei stato anche l’allenatore. Come era il vostro rapporto?
Abbiamo dormito per sei anni nella stessa stanza. Credi che qualcuno potesse conoscerlo meglio di me? Conoscevo i suoi punti di forza e le sue paure. Su una cosa potevamo discutere all’infinito senza essere d’accordo. Lui diceva che se un pugile non ha talento non va da nessuna parte. Io gli rispondevo che quel che diceva era vero, senza talento non si può costruire nulla. Ma se non hai accanto una persona che quel talento riesce a fartelo esprimere al cento per cento, puoi rimanere per sempre un incompiuto che non arriva fino a dove sarebbe potuto arrivare. Non lo ammetterà mai, ma credo di avere avuto un ruolo importante nella sua carriera: i titoli li ha vinti con me accanto. Lui lo sa, anche perché quando veniva all’angolo non potevo dirgli una cosa che già la stava facendo.
Come sarebbe stata la famiglia Duran senza la boxe?
Non so cosa rispondere. Avevo quindici anni e già avevo deciso. Mi divertivo a fare il pugilato, ero contento di farlo. Sentivo l’orgoglio di essere diverso, di essere in grado di fare cose che altri non riuscivano a fare.
L’idea che saresti potuto arrivare al mondiale, quando è arrivata?
Se devo scherzare, dico che una volta eravamo a tavola Alessandro, Kalambay ed io. Ridendo ho detto: ecco tre campioni del mondo, Sumbu dei medi, Ale dei welter ed io dei mediomassimi. È andata proprio così, anche se ho cambiato categoria. Ma quella era solo una battuta. Se devo essere serio dico che da quando ho cominciato pensavo a obiettivi sempre più importanti, passo dopo passo. Intendo dire che ci credevo, sognavo di arrivarci, non che ne fossi sicuro.
E dopo il mondiale come ti sei sentito?Mi sembrava di volare.
In palestra adesso hai una cintura speciale del World Boxing Council. Che significato ha?
È stata una gioia, un momento di felicità. Devo ringraziare il presidente Mauricio Sulaiman e Mauro Betti, un amico, una persona seria. È una cintura realizzata appositamente per l’Italia, per il torneo che avevo in mente. Ci sono i simboli di tutte le regioni italiane e al centro quello della Repubblica. Ne sono orgoglioso, anche se non è finita come avevo sognato.
Chiudo con una domanda poco impegnativa. Chi ti ha regalato il tuo soprannome?
È stato quello svitato di mio zio. All’esordio da professionista dovevo incontrare Momo Cupelic che si è presentato a Ferrara con dei mutandoni che non vedevo da anni. Erano da militare, con lo spacco davanti. Da vergognarsi, anche se devo dire che oggi Cupelic le avrebbe suonate a tanti. Quando in allenamento non andavo, avevo poca voglia o non facevo le cose per bene, mio zio continuava a ripetermi: “Non fare il Momo, non fare il Momo”. Così quel soprannome mi è rimasto addosso, un giornalista l’ha scritto in un articolo ed è stata la fine. Ma mi ha portato fortuna e quindi dico: Grazie Momo.
Massimilano chiude con una risata questa lunga chiacchierata.È il testimone di un pugilato che forse non tornerà più. Quello dei match in diretta sulla Rai, degli stadi pieni, dei nostri campioni che partono nettamente sfavoriti e battono il grande di turno.
Oggi Momo allena e lo fa con la stessa passione di sempre.
In questa intervista però c’è una domanda sbagliata, colpa mia.
Perché sono andato a chiedere a un Duran cosa sarebbe stata la sua famiglia senza il pugilato?
Come dice la scrittrice americana Joyce Carol Oates: “La vita è come la boxe per molti e sconcertanti aspetti. La boxe però è soltanto come la boxe”.
I Duran lo sanno benissimo.

CARLO DURAN, DICEMBRE 1967, RACCONTO
La voce inconfondibile di Fausto Leali usciva dalle finestre della casa al primo piano di un vecchio palazzo del centro storico di Bologna, tra Piazza Maggiore e la Basilica di San Petronio. In via Dè Pignattari, mi sembra.
A chi sorriderò,
se non a te.
A chi se tu,
tu non sei più qui.
Ormai è finita,
è finita, tra di noi.
Ma forse un po’ della mia vita
è rimasta negli occhi tuoi.
Un amore finito male. Una vicenda che ha niente a che fare con la nostra storia, ma quella canzone aveva conquistato tutti e sul piatto del giradischi la faceva da padrona. Impossibile non ascoltarla anche dalla strada.
Era un martedì, strano giorno per salire sul ring.
Quel 26 dicembre, anno di grazia 1967, si combatteva di pomeriggio e il Palasport era pieno. C’erano settemila persone nell’impianto di Piazza Azzarita. Erano venuti a vedere Carlo Duran che affrontava per la terza volta Ted Wright, pugile di colore dai capelli folti e ricci. Un peso medio di Detroit, molto conosciuto in Italia. Del suo match al Palasport di Roma contro L.C. Morgan, le iniziali stavano per Langstone Carl, se ne era parlato per anni.
Rino Tommasi, che l’aveva organizzato, diceva: “È il più bell’incontro che sia riuscito a mettere in piedi. Avevo promesso duecento dollari in più della borsa pattuita a chi dei due fosse riuscito a mandare al tappeto l’altro. Erano andati giù entrambi. Morgan ad inizio terzo round, Wright nel finale della stessa ripresa. Un gancio sinistro di Wright aveva chiuso la sfida. L’accoppiamento era nato da una mia intuizione. Avevo visto Morgan contro Campari e Wright contro Santini, così avevo deciso che i due avrebbero potuto dare vita a una sorta di grande battaglia spettacolare. Non mi ero sbagliato”.
Altri tempi.
Wright aveva incontrato Don Fullmer, Benvenuti, Griffith, Denny Moyer, Garbelli. Nominatene uno e lui l’aveva affrontato.
Con Duran si era già battuto due volte, entrambe a Milano.
La prima il 22 novembre del ’63.
Una serata indimenticabile, la sera della grande tragedia. A Dallas, in un maledetto pomeriggio texano, era stato assassinato il presidente John Fitzegerald Kennedy.
La seconda il 7 febbraio del ’64.
Due risultati di parità.
La cosa strana però non erano i due pari, ma l’assenza a bordo ring di Augusta. La signora Duran non mancava mai a un incontro del marito. Nella prima occasione era in casa ad accudire Massimiliano, nato appena diciannove giorni prima. Nell’altra era alle prese con un’influenza. Del figliolo, non sua.
Ma a Bologna lei c’era e sedeva a bordo ring.
Dice Alessandro.
“È stata sempre lì a soffrire per i suoi cari. Il nostro è un ambiente affascinante, ma difficile. Non ci si scambia carezze. Lei ci ha sempre lasciato libertà di scelta. Seguiva papà agitandosi sulla poltrona a bordo ring. Con noi a vincere era la paura. Vedere combattere i figli le creava ansie continue. Se ne stava lì in silenzio. Di papà era anche una tifosa, per noi è stata sempre e solo la mamma. È normale che fosse così. In palestra era il papà a comandare, ma in casa le cose cambiavano. È stata lei che si è presa cura delle nostre vite. A volte è stata anche la mamma di mio padre”.
Lei lì e i figli in casa.
Ale aveva due anni. Ma già sentiva nell’animo la presenza forte del pugilato. Un ciondolo con due guantini in oro era stato il regalo di un amico del papà per il primo compleanno. Era ancora piccolo, ma neppure in seguito gli sarebbe stata concessa la presenza a bordo ring.
Dice Augusta.
“E no! C’ero già io a soffrire. Vedere il papà combattere sarebbe stata per i ragazzi un’emozione troppo forte. Non era proprio il caso”.
Per Massimiliano il problema non poneva. Il fratello davanti alla tv, lui nascosto in un angolo della casa a tormentarsi le unghie senza guardare neppure un’immagine.
Torniamo a quel Santo Stefano di cinquantatrè anni fa.
Carlo aveva vissuto la vigilia da vero professionista. Niente concessioni alle distrazioni, anche se il clima di festa lo avvolgeva come un panno caldo. Niente sgarri alla dieta e a qualsiasi altra cosa che avrebbe potuto togliergli la giusta concentrazione.
Era andato al Palasport convinto che ne sarebbe uscito vincitore.
Quaranta giorni prima aveva conquistato il titolo europeo battendo Luis Folledo, pugile con 115 vittorie su 121 incontri, per kot alla dodicesima ripresa. E adesso era lì per conquistare un pubblico difficile come quello bolognese.
Prima del match clou c’era stata la sfida tra i mosca Vitantonio Mancini e Kid Miller. Quando era stato annunciato un verdetto di parità, sul ring era volato di tutto. Carta, monete, qualche scarpa. La gente non aveva gradito.
Alla fine era stata la volta di Carlo Duran e Ted Wright.
L’americano aveva trent’anni e il meglio l’aveva già dato. Ma restava comunque un cliente molto scomodo. Anche perchè il ricordo delle prime due sfide faceva male.
Dice Gualtiero Becchetti, fratello di Augusta e cognato di Carlo. Ma soprattutto uomo di boxe da sempre.
“Erano stati match duri, terribili. Soprattutto il primo. Non ricordo bene chi l’abbia detto, ma qualcuno ha definito quell’incontro come uno dei più terribili che si siano svolti a Milano. E poi una parte del pubblico era lì per tifare contro Carlo. Erano quelli che tenevano per Benvenuti e non vedevano di buon occhio l’argentino d’Italia”.
Nino quello stesso giorno era a Reggio Emilia per sostenere un’esibizione con Giulio Saraudi e Alfio Neri, in preparazione alla terza sfida con Emile Griffith che si sarebbe poi svolta il 4 marzo dell’anno dopo.
Il match tra Duran e Wright era stato meno intenso dei primi due. Nei quattro round iniziali il ritmo era stato lento, poi erano entrati nel vivo e se le erano date al punto da finire l’incontro entrambi segnati.
Duran aveva vinto chiaramente e quando era uscito dallo spogliatoio aveva trovato il caldo abbraccio di Augusta. Un bacio era stato il suo premio. Se ne erano andati via a braccetto. Carlo però si era fermato all’improvviso. Aveva stretto il braccio della moglie e con gli occhi aveva attirato la sua attenzione su una scena che non avrebbe mai dimenticato.
Tito Lectoure aveva preso il suo sacco e glielo stava portando fuori dal Palasport. Un gesto di grande affetto da parte di uno che all’epoca era tra i padroni del pugilato mondiale. Ma soprattutto un gesto distensivo che equivaleva a una stretta di mano, a una proposta di pace ritrovata.
Carlo Duran era andato via dall’Argentina proprio a causa di una lite con il boss del Luna Park di Buenos Aires.
“Voglio combattere con Sacco, fammelo affrontare”.
Carlos e Ubaldo Francisco erano i medi del momento in quel Paese.
Il figlio di Ubaldo Francisco, Ubaldo jr, sarebbe diventato campione del mondo dei superleggeri e avrebbe poi perso il titolo a Montecarlo contro Patrizio Oliva. Ma questa è un’altra storia.
Lectoure non voleva mettere su quella sfida.
Poi all’improvviso aveva fatto una telefonata.
“Carlo, finalmente puoi incontrare Sacco”.
“Non puoi chiamarmi a due settimane dal match, sono in vacanza. Non sono pronto”.
“Se non sali sul ring contro di lui, non combatterai mai più in Argentina”.
Duran aveva allora deciso di andarsene.
La prima scelta era caduta sugli Stati Uniti, poi Ernesto Miranda l’aveva convinto ad andare l’Europa. Era così sbarcato in Italia, per poi fermarsi a vivere a Ferrara e mettere su famiglia in quella splendida città.
Adesso Lectoure aveva teso la mano.
Dimenicato il passato, di nuovo amici.
Carlo e Augusta avevano lasciato piazza Azzarita quando la sera bolognese stava ormai scivolando nel freddo della notte.
Erano tornati a casa, avevano dato un bacio a Massimiliano e Alessandro che già dormivano.
Finalmente le tensioni erano sparite.
Si poteva festeggiare il Natale anche in casa Duran.
Siamo la coppia più bella del mondo
e ci dispiace per gli altri
che sono tristi perché non sanno
il vero amore cos’è!
Era notte, eppure sembrava proprio di sentire nell’aria le voci di Adriano Celentano e Claudia Mori…