
5,1,6,10.
I numeri a volte raccontano una storia.
Questi parlano di un periodo felice, di sorrisi e pacche sulle spalle.
Cinque anni, un mese, sei giorni, dieci difese.
Raccontano la storia di Deontay Wilder campione del mondo dei massimi. Quando la gente per strada lo salutava gridando “Hi, Champ!”. Al ristorante aveva sempre il tavolo migliore, in discoteca non c’era bisogno di fare la fila e i giornalisti chiamavano ogni settimana.
Da venti mesi non è più così.
I sorrisi sono sempre di meno, aumenta il tempo in cui si chiude in sé stesso e riempie la vita di domande. Il finale è sempre uguale, un appello all’angelo custode, all’unica cosa può farlo tornare a sorridere.
Il suo diretto destro.
Non è un colpo, è un’arma letale. Lo porta in modo quasi perfetto.
E non fa prigionieri.
“Gli altri per pensare di battermi devono essere perfetti per dodici riprese, a me bastano due secondi all’interno del match”.
Le gambe fanno presa sul tappeto, la spinta della spalla carica il colpo. Il braccio si distende. Prima di centrare il volto, il pugno compie un’ultima rotazione in senso antiorario. Un solo movimento coordinato, senza lasciare alla potenza la possibilità di disperdersi. Poi, l’esplosione. Nello spazio di un sorriso, ha portato il peso del corpo sul piede destro, poi velocemente l’ha passato sul sinistro. Tutta la gamba destra si è distesa, il tallone ha ruotato di un quarto di giro verso destra. Il tronco ha fatto una torsione verso sinistra, la spalla destra si è portata in linea con l’altra.
Una fucilata che ha tolto al rivale ogni contatto con la realtà.
Quando chiude questa sequenza di movimenti Deontay Wilder sente una scossa attraversargli il corpo. Il diretto destro è l’unico colpo che porti secondo regole da manuale, anche se a volte lo sporca avvicinandolo al gancio, lasciando che resti pericolosamente a navigare tra le due traiettorie.
Pensa tanto questo gigante dell’Alabama, che tra due settimane compirà 37 anni. Pensando torna indietro nel tempo, la mente attraversa un percorso insidioso, pieno di buoni e terribili ricordi.
Tempo fa il giornalista Manouk Akopyan ha raccontato la sua anima su boxingscene.com.
Ha ricordato come il campione fosse addirittura arrivato a pensare al suicidio nel 2005, quando sua figlia Naieya era nata con la spina bifida.
Abuso di alcool e droghe l’avevano portato verso la depressione.
“Tutti abbiamo problemi mentali. Non c’è nessuno che sia sano al 100%. A volte sono pazzo. A volte faccio cose strane. Avevo una pistola in mano quando ho pensato di uccidermi. Voglio dire, merda, non c’è niente di diverso da Fury. A qualcuno interessa dei miei problemi mentali? Non credo. Potrei essere un modello di riferimento, ma dovreste accettarmi per quello che sono. Potrei dire delle cose pazze. Potrei inventare parole. Sono un essere umano. Non percorro una strada diritta. Sono molte le cose che potrebbero andare storte nella mia vita. Dipenderà da me correggerle. Alla gente dico solo di accettarmi per quello che sono. Non sono perfetto. Ma sono sempre stato una persona ottimista e felice. Sento amore attorno a me ogni mattina quando mi sveglio. Non permetto ad alcuna negatività di girarmi attorno. Ho lavorato duramente per raggiungere questa posizione. Molte volte, per tanti anni, la mia vita non è andata così. Ero in posti bui, come molti di quelli che non sono nati nei luoghi giusti. Adesso devo rimanere positivo, è questa la spinta che sento dentro di me. Il successo mi rende felice, mi aiuta.”
Il successo lo rende felice.
È anche per questo che sabato notte lotterà con il peggiore dei suoi incubi da quando è diventato professionista. Un omone bianco che gli ha preso tutto e l’ha ricacciato indietro nel tempo. Il re dei gitani è il fantasma che lo tormenta.
Deontay ne è convinto.
È arrivato il tempo di riprendersi quello che era suo.
5, 1, 6, 10.
Questi numeri devono tornare a farlo sorridere, da venti mesi evocano solo rimpianti.
Un pensiero su “Wilder, un suicidio sfiorato. Il riscatto, per tornare libero”