
La vita nel ghetto è dura, spietata, non concede spazio per i sogni.
È una continua lotta per la sopravvivenza.

Christine ha undici anni, è figlia di una ragazza madre. È cresciuta a Nairobi, in una delle aree con la maggiore densità di popolazione. L’odore delle fogne a cielo aperto, rivoli di acqua stagnante e immondizia, ricorda a ogni essere umano che la vita è sofferenza.
Lei abita in una casa lungo Kamunde Road a Kariobangi North, strada e fogne sembrano essere state sottoposte a lavori di ristrutturazione, ma l’odore fetido che entra nelle narici non lascia spazio alle illusioni.
Christine Ongare quando mette al mondo suo figlio ha 12 anni. Solo oggi, che di anni ne ha 27, ha imparato a sorridere.
È stata dura.
Si è dovuta difendere da una società maschilista che la vedeva come un oggetto, una facile preda. I maschi pensavano fosse incapace di opporre resistenza. Era piccola, minuta. Con il tempo avevano scoperto che era anche una guerriera.
«Sono una ragazza del ghetto, vengo da lì».
Piccolina, 1.54 per 51 chili (pesi mosca), ha una grande forza interiore.
La vita finora le ha dato davvero poco.
«Mi hanno sempre detto che quando cadi ti deve rialzare. Ci ho provato con tutte le forze. Mi sono rialzata. È una lezione che ho imparato fin da piccola. E io sono caduta. Spinta dal gruppo dei miei pari età ho voluto provare una cosa che non conoscevo e mi sono fatta e ho fatto del male».
Gli amici hanno cercato di bullizzarla. Con le parole, con la forza fisica, con quella psicologica. Lei, sbagliando, ha ceduto alle pressioni.
Una volta sola, dice. Per non sentirsi fuori dal gruppo, a volte si fanno cose di cui poi ci si pente. Ha subìto un trauma fisico e psicologico, precipitando in una situazione che l’ha costretta a tagliare i ponti con il resto del mondo.
«Anche mamma è stata una madre single giovanissima. Ha cresciuto i suoi figli senza avere un uomo accanto. Ha fatto debiti che non so come, e quando, riusciremo a restituire».
È in questo universo, in cui non c’è spazio per l’adolescenza, che è cresciuta Christine.
«Non ne sarei uscita senza l’aiuto di mia madre. Lei si è presa cura di me e del mio bambino, che ora la chiama mamma. Ho un solo modo per guadagnare onestamente denaro, per cercare di realizzare i miei sogni, per coprire gli interessi che il debito ha generato».
Christine, che appartiene alla fascia più povera tra i poveri, ha puntato tutto su quello che crede possa regalare sicurezza a lei a suo figlio, oramai quindicenne. Lui gioca al calcio, benino dicono, lei tira di boxe. Ed è proprio il pugilato che dovrebbe darle la chiave per aprire il mondo dei sogni.
Si è presentata ai Commonwealth Games del 2018 a Gold Coast, Australia, con un record di 5-3-0. E ha vinto il bronzo nei pesi mosca. Prima di lei nessuna donna keniota era mai riuscita a conquistare una medaglia nella boxe.Ha insistito, ed è entrata in nazionale. A febbraio 2020, nelle qualificazioni africane di Dakar in Senegal, ha sconfitto l’ugandese Catherine Nanzizi e ha staccato il biglietto per Tokyo 2020.
«A guidarmi è la forza della disperazione, il coraggio che mi viene dal sapere che, vincendo qualcosa di importante, potrei realizzare il mio obiettivo».
Christine ha deciso di impegnarsi in uno sport duro, difficile, una disciplina che non ammette tentennamenti. L’Olimpiade è tosta e in tabellone troverà ragazze più forti di lei. Il podio è lontano, molto lontano.
Ma c’è una spinta decisamente importante, c’è il futuro di suo figlio, la tranquillità della madre.
Di battaglie ne ha già combattute tante, soprattutto nella vita.
«Non mi va di parlarne. Ma credo sia facile intuire cosa significhi diventare madre a dodici anni. Mamma dice che soldi se ne sono sempre visti pochi, che ci sono stati giorni in cui abbiamo dovuto dormire fuori di casa perché non avevamo pagato l’affitto e il padrone aveva messo un lucchetto alla porta. Ci siamo piegati, abbiamo sofferto, ma non ci siamo mai arresi».
Adesso qualche volta le capita addirittura di sorridere, anche se non dimentica uno solo dei drammi della vita.
«È davvero cambiato qualcosa nella mia vita. Ma il sogno non è essere popolare, il sogno è un altro. Mi basterebbe che tutte le coppe che ho vinto, le medaglie, i titoli dei giornali si trasformassero in soldi. Non per comprami una casa o una macchina. Ma per garantire il cibo al mio ragazzo, lui non deve soffrire quanto ho sofferto io».
Christine Ongare ha raccontato la sua storia alla televisione. Olympic Channel le ha fatto le domande, poi ha montato il servizio mandando in video solo le risposte. Ne è venuta fuori una confessione dura, intensa, struggente.
A 12 anni era già mamma, a 27 ha imparato a sognare.
Ma senza esagerare.
(estratto dal libro SOLO COME UN PUGILE SUL RING di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free Libri)
