
Fabio Turchi (17-1-0, 13 ko, 27 anni) venerdì all’Allianz Cloud di Milano affronterà il lettone Nikolajs Grisunins (12-1-1, 5 ko, 36 anni). Ho messo assieme tutte le cose che il pugile toscano mi ha raccontato in una lunga chiacchierata di qualche tempo fa. Ho aggiunto un paio di dichiarazioni che ha fatto oggi pomeriggio in conferenza stampa. È nata così una storia che ha un narratore d’eccezione. Fabio Turchi si racconta senza nascondersi.
“Sono nato a Firenze, zona Careggi. Poi mi sono spostato all’Isolotto, ora vivo a Rifredi. Sono un itinerante. Non mi fermo mai.
Quando la mamma mi portava ai giardini con i ragazzi della mia età, andavo ancora all’asilo, mi mettevo da solo in disparte e mi muovevo come se dovessi fare il vuoto o la ginnastica.
Papà mi ha portato in palestra quando avevo quattro o cinque anni. A vedere, non ad allenarmi. E mi è subito piaciuto tutto. L’odore, l’atmosfera, i rumori.
Il locale era lo stesso di oggi, quello dove insegna il babbo. Prima che nel ’98 la bruciassero, aveva il parquet. Ricordo quelle luci in alto, gialle, diverse da qualsiasi altra luce avessi visto in giro. E poi c’era lo stanzino dei pesi. Non volevano che entrassi, così mi fermavo appena fuori ad ascoltare. Loro facevano cadere sul pavimento i pesi, pensando così di mettermi timore. E invece a me quel rumore piaceva. A volte, raramente, mi permettevano di salire sul ring. Mi guardavo intorno, era bellissimo. È stato amore a prima vista.

Il babbo l’ho visto visto combattere qualche volta da professionista. Stavo malissimo. Avevo una paura terribile. Temevo potesse perdere, ero terrorizzato che potesse farsi male. Ma lo scenario che c’era attorno al pugilato continuava a piacermi. Sognavo di poter vivere un giorno da protagonista quelle atmosfere.
Pensa che quando ero ragazzino, mi mettevo in un angolo da solo e facevo la telecronaca come se fossi Rocky Mattioli o Nino Benvenuti. E sul ring, nella mia testa, a battersi per il titolo c’ero io.
Per me la boxe è professionismo. È sempre stata quella la mia aspirazione.

Il dilettantismo mi ha fatto crescere come atleta e come uomo. Ma non faceva per me. Sia chiaro, non giudico ma rispetto chi ha scelto di vivere solo quella fase del nostro sport. Nella mia testa però il dilettantismo era un momento di crescita, di passaggio verso quella che era la vera meta: il professionismo.
Per me non avere fatto un’Olimpiade è stata un’occasione mancata. Sono arrivato alla fase finale del dilettantismo vuoto. I ritiri continui, il fatto di avere davanti uno come Clemente Russo, personaggio e pugile di caratura importante, il dovere pensare all’inserimento nei gruppi militari come obiettivo da raggiungere, il dovermi sentire più uno da scrivania che uomo da ring mi hanno convinto a cambiare.
È stato difficile lasciare la sicurezza dell’Esercito e le certezze del dilettantismo. Avevo addirittura pensato di smettere. È stato il periodo più buio da quando ho cominciato a fare il pugile. In assoluto il più brutto della mia vita, non solo dell’attività sportiva. Mio padre mi diceva che ero impazzito, che sbagliavo. Sono stato lasciato da solo anche da quelli che dicevano di essere miei amici. I vecchi pensavano che avevo perso la testa. Non sapevo dove ritrovare certezze.

Con il tempo mi sono preso molte rivincite. Non solo su me stesso, ma su tanta gente che pensava avessi sbagliato tutto.
Non dico che i soldi non siano importanti, sarei un ipocrita. Dico che ho sempre cercato entusiasmo in quello che facevo e ho voluto essere coerente andando a rischiare in proprio. Dicevo che il dilettantismo era una fase di passaggio, di crescita, comunque un momento di transizione. E il professionismo era la boxe vera. Con questi concetti nella testa non potevo non fare la scelta che ho fatto.
Non ho vinto titoli assoluti, parlo di europei o mondiali, eppure ho avuto una buona popolarità. Alla gente evidentemente piace la mia semplicità. E chi ama questo sport ha apprezzato la scelta di rischiare nel professionismo andando controcorrente.

Tra un match e l’altro passa molto tempo e io devo faticare, soprattutto a tavola. Sono una buona forchetta. Mi piace quello che non potrei mangiare, i carboidrati in blocco: pasta e dolci. Ma sono anche uno scrupoloso. Quando vado in allenamento non mi concedo distrazioni. Voglio arrivare al match al massimo, senza avere rimpianti per una seduta in palestra fatta male o per uno sgarro nell’alimentazione.
Quando sono andato via di casa, sapevo fare davvero poco. Mamma mi vedeva raramente, ero sempre in ritiro, quando tornavo mi viziava. Adesso credo di essere cresciuto. E non solo perché ho imparato a cucinare, ma anche perché ho capito cosa significhi gestire un bilancio familiare. Pagare le bollette, rispettare le scadenze. Fino a quando ero con i miei, pensavano a tutto loro. Sono diventato grande.

Avere un padre che fa l’allenatore è un’arma a doppio taglio. A volte è meglio avere vicino uno che ti conosce bene, sotto match riesce a regalarti il 5/10% di rendimento in più. Ma può anche essere un male. Una critica del papà/allenatore ti tocca più di quella di uno che è solo il tuo maestro. Prima, quando ero ancora in casa, era stressante. Parlavamo di pugilato 24 ore al giorno. Adesso va decisamente meglio.
Ho sempre visto l’America come il paradiso del pugilato. Da bambino giocavo alla play station e sceglievo la boxe, vedevo Holyfield e Tyson e avrei voluto essere loro. Evander aveva anche i pantaloncini viola, il colore della Fiorentina. Come avrei potuto non volergli bene.

Se un giorno il mio manager venisse da me per dirmi: Abbiamo l’accordo per un match con il titolo in palio, credo che proverei sensazioni contrastanti. Entusiasmo per il momento più importante della carriera, tensione perché mi chiederei: sono davvero all’altezza?
Adesso che sto costruendo la mia carriera sento che la gente di Firenze mi è vicina. Ho tanti sostenitori. Ma se guardo avanti credo che dovrei scoprire altri posti. Per crescere bisogna uscire dal guscio. Il fiorentino vede solo Firenze, e questo non è un bene. Il mondo va scoperto.
La sconfitta con McCarthy è acqua passata. Per mesi interi non ho pensato ad altro. Ho recriminato su quello che avrei potuto fare, su come sarebbe potuto finire quel match. Ma ora basta. Sono tornato a lavorare. Sudore e sacrificio hanno lavato ogni malinconia.

Torno sul ring dopo un anno di inattività. Mi sono allenato anche con un campione di MMA come Max Vettori. Le traiettorie particolari dei suoi colpi mi hanno preparato a una boxe più ruvida, più tipicamente professionistica. E poi è un mancino come Nikolajs Grisunins, il mio avversario di venerdì a Milano

L’ultima volta che ho combattuto, sono salito sul ring con la maglietta della Fiorentina. Visto come è andata forse avrei fatto meglio a mettere quella della Juventus, magari mi avrebbe portato un po’ piùù di fortuna. Scherzo. Andrò su con un classico completo bianco. Il pugilato è sport di testa e di fisico, certamente non vinci o perdi per il tipo di maglietta che indossi.
Sono pronto, si ricomincia”.