Il combattimento era stato duro, equilibrato. Ma al quattordicesimo round, proprio mentre il colombiano stava cercando di impadronirsi della scena caricando come una belva eccitata dall’odore del sangue, Carlos Monzon (nella foto in alto contro Bennie Briscoe) aveva tirato un micidiale diretto destro lungo.
Il sinistro era andato avanti, a prendere le misure prima di far scattare l’ultima pallottola. Il destro era partito a pompa.
Gambe ben ferme sul tappeto, spinta della spalla a caricare il colpo. Poi, l’esplosione. Nello spazio di un sorriso, aveva portato il peso del corpo sul piede destro, poi l’aveva velocemente passato sul sinistro. Tutta la gamba destra si era distesa, il tallone aveva ruotato di un quarto di giro verso destra. Il tronco aveva fatto una torsione verso sinistra, la spalla destra si era portata in linea con l’altra.
Anche il braccio si era disteso, curando che il gomito non uscisse dalla linea del fianco. Prima di centrare il volto, il pugno aveva compiuto un’ultima rotazione in senso antiorario. Un solo movimento coordinato, senza lasciare spazio e tempo che potessero permettere alla forza di disperdersi.
Una fucilata che aveva tolto per un attimo ogni contatto con la realtà al povero Rodrigo Valdes.
Mario Romersi definisce in sei parole Carlos Monzon.
“Una belva, con un destro micidiale”.
E a chi gli chiede se il destro dell’argentino fosse davvero così pesante, risponde senza stare tanto a pensarci su.
“Provo a spiegarmi. Ogni volta che ti prendeva, ti sentivi come se qualcuno ti avesse tirato addosso un sacco di sabbia pressata. Eri fortunato se andavi a terra. Perché altrimenti, quello ti intronava e poi non finiva di picchiare finché non ti aveva distrutto”.
La prima volta che ha fatto i guanti con lui si è lasciato cogliere di sorpresa.
“Eravamo al Flaminio. Ho alzato il sinistro nel classico gesto di saluto e lui mi ha incrociato col destro. Mi è improvvisamente sembrato di essere su un disco volante. Tutto attorno a me girava vorticosamente. Vedevo anche tanti piccoli cinesi che facevano roteare dei piatti su esili bastonicini di legno. Quel destro mi aveva completamente imbambolato. Lui ha continuato a venire avanti e picchiare”.
Il giorno dopo, nella seconda sessione di sparring qualcosa è cambiato, ma questa è un’altra storia.
Il ko è un momento triste ed esaltante del pugilato. Racchiude l’essenza dello scontro, esalta il vincitore e propone attimi di terrore a chi ha lo sconfitto nel cuore.
Ne ho visti tanti in una vita a bordo ring. Ce ne sono alcuni che ricordo meglio, altri che ho dimenticato. Nella mente ne conservo uno che non scorderò mai.
È il 15 giugno del 1984, il ring è quello del Caesars Palace.
Thommy “Hitman” Hearns difende il titolo Wbc dei pesi superwelter contro Roberto “mani di pietra” Duran.
Il match si doveva disputare alle Bahamas, è stato trasferito a Las Vegas perché gli hotel non avrebbero potuto garantire un’adeguata disponibilità di stanze.
In platea 14.284 spettatori, la pay per view ha venduto la sfida a 2.1 milioni di case. Stessa borsa per i due pugili: 1.85 milioni di dollari.
Hearns ha un record di 38-1-0, l’unica sconfitta l’ha subita per kot 14 contro Sugar Ray Leonard, quando era in vantaggio su tutti e tre i cartellini dei giudici.
Nel primo round mette due volte al tappeto Duran (77-5-0), che alla fine della ripresa, confuso e scosso, va all’angolo neutro. I secondi lo riportano in quello giusto.
Nella seconda ripresa Hearns lo travolge di colpi, stoicamente e grazie a una resistenza fisica eccezionale “mani di pietra” riesce a rimanere in piedi.
Dopo 59 secondi dall’inizio del round un terrificante diretto destro del Cobra mette ko lo sfidante che finisce al tappeto faccia in avanti.
Terrificante.
Ancora una foto per raccontare un colpo. Il protagonista è Patrizio Oliva, uno dei pugili con la migliore tecnica che la boxe italiana abbia mai avuto.
La boxe di Wilder è elementare. Ha in repertorio una sola arma, il diretto destro. Quando arriva a segno è devastante, terribile. Quel colpo è un’arma letale. Lo porta con perfetta coordinazione piedi, gambe, busto, braccia. Quel pugno può mettere ko qualsiasi peso massimo in circolazione.
Sono con lui quando dice: “Gli altri per pensare di battermi devono essere perfetti per dodici riprese, a me bastano due secondi all’interno del match”.
Grazie a questa caratteristica ha conquistato il mondiale dei massimi Wbc e lo ha difeso dieci volte. Poi è arrivato Tyson Fury, che gli ha tolto spazio e tempo azzerando la pericolosità di quel colpo, e la storia è finita lì.
«Vola come una farfalla, pungi come un’ape».
No, Bundini, stavolta non si può. Bisogna che quel gorilla del campione si stanchi a forza di picchiare, lui intanto impara ad alzare la soglia del dolore facendosi sistematicamente colpire da Larry Holmes, suo sparring in allenamento, futuro campione del mondo. L’Africa è con lo sfidante, l’altro è solo un bianco travestito da nero.
«Ali boma ye, Ali boma ye».
Urlano i ragazzi che vivono nelle baracche accanto al fiume Congo, i diseredati vittime della dittatura del presidente Mobutu, i poveri, i sognatori.
Ali uccidilo, Ali uccidilo.
È il 30 ottobre del 1974.
Ali viene torturato per sei round dal grande George. Mazzate di devastante potenza su un corpo immobile, un martirio che intristisce gli animi. Spalle poggiate sulle corde Ali fa sfogare il nemico. L’altro perde sicurezza, vede calare la propria forza. E Ali è sempre lì, in piedi davanti a lui.
Nell’ottavo round si compie il capolavoro. Lo sfidante esce dall’angolo, mette in fila una serie infinita di colpi chiudendo con un destro che nessuno potrà mai dimenticare. Poi non colpisce più, non ce n’è bisogno. È nuovamente campione del mondo.
Diluvia su Kinshasa. È festa in onore del re tornato a comandare il mondo. L’acqua pulisce le imperfezioni del vecchio regime, di quello fatto di violenza e di nessuna saggezza di George Foreman.
Il gigante è crollato, Big George si è arreso all’ultima magia di Ali.