Roma, 24 aprile 1964
Un destro al mento.
Sandro è al tappeto.
È come se una scossa elettrica attraversasse il corpo e rendesse molli le gambe che cedono all’istante. All’improvviso l’aria si riempie di colori. Mazzinghi sa bene quanto facciano male i pugni. Ne ha incassati tanti, ma quel destro ha anche tolto il velo a un dubbio che lo accompagnava da qualche tempo. Per questo fa ancora più male.
Il pubblico romano resta per un attimo in silenzio, ammutolito dallo stupore per quello che ha appena visto. Un colpo preciso ha messo giù il guerriero, l’uomo senza paura, l’eroe nato per combattere.
Quel pugno l’ha tirato un pugile che viene da Phoenix in Arizona. Si chiama Charley Austin. È un giramondo che calca qualsiasi ring.
Lo accompagna Cecil Hudson, uno che ha avuto la fortuna di avere come manager e allenatore il mitico Henry Armstrong.
Venerdì, 24 aprile del ’64.
Si combatte al PalaEur.
Il colpo è forte, un destro micidiale. Davanti agli occhi di Sandro compaiono le stelle. Per qualche istante vede infiniti colori, più di quelli che esistono nell’iride. Ce ne sono tanti che neppure conosciamo. E sono bellissimi, sono i colori della meraviglia che possono trasformarsi in quelli del buio della sera quando arriva il knock down o addirittura nello scuro della notte quando sopraggiunge maligno il knock out.
È il secondo round di un match che ne prevede dieci. Una montagna insormontabile da scalare per uno che ha le gambe che sembrano non reggere più neppure il peso dei pensieri.
«Alzati Sandro, alzati!»
Guido urla un centesimo di secondo dopo il kd, disperato e sorpreso anche lui.
Charley Austin è un pugile che in altri tempi Mazzinghi avrebbe messo via in poche riprese. Ma nella tragedia che lo ha colpito poco più di due mesi fa il campione ha lasciato parte dei riflessi, della grinta, addirittura della passione. Ha perso Vera, la moglie. E per qualche tempo ha perso anche la voglia di vivere. La boxe l’ha aiutato a riprendere contatto con la realtà.
La metodicità degli allenamenti, la sveglia all’alba, la corsa, le riprese di sparring, la palestra. Il contatto con i rumori amici, il cigolare del sacco, il suono sordo della palla medicinale, quello ritmico della pera, lo hanno lentamente accompagnato verso una quotidianità ritrovata.
Arrivare nello spogliatoio, cambiarsi con calma come se stesse interpretando una sorta di rito religioso, gli restituisce poco alla volta una fiducia che credeva persa per sempre. La sacralità dei movimenti lo accompagna dentro una dimensione a lui nota. È un insieme di gesti importanti grazie ai quali si sente di nuovo a casa e pensa sia giunto il momento di ricominciare a vivere.
Non si accorge di quanto grande sia il macigno che porta sulle spalle.
La preparazione è un insieme di gesti ripetitivi, di azioni provate mille volte in passato. Puoi eseguirle essendo consapevole di ogni singolo movimento o replicarle per abitudine, sollecitando in automatico la spinta dei ricordi. Ti muovi come un robot e credi di essere tornato un uomo.
«Forza Sandro, combatti!»
Contro Hilario Morales ha vissuto l’illusione di essere ancora il Ciclone che, partito da Pontedera, aveva entusiasmato il mondo. Il colpo secco di Charley Austin gli ha ricordato che nessun momento nella vita di un pugile può mai essere dato per scontato. Il ring ti fa scoprire verità che prima di salire quei gradini e scavalcare le corde ignoravi del tutto.
C’è bisogno di tempo per ritrovare il campione di ieri.
Non tutti vogliono rendersene conto.
Saranno sette i match che disputerà da aprile a dicembre del ’64, quando avrebbe bisogno di ampi spazi di riposo per recuperare. Non tanto nel fisico, quanto nella mente. Lui è il primo a essere convinto di avere lasciato molto in quella maledetta notte sulla strada che porta a casa. A volte gli sembra di avere lasciato tutto.
È salito subito sul ring, forse per scacciare gli incubi che rendevano insonni le lunghe notti. Era stanco di rigirarsi nel letto, bagnare di sudore le lenzuola, sbarrare gli occhi quando era ancora notte fonda e il mattino sembrava non dovesse mai arrivare.
«Meglio rigettarmi nella mischia, almeno avrò la testa impegnata. E chissà che un poco alla volta non riesca a vivere in una dimensione che ora mi appare senza senso».
Non è andata esattamente così. Quei tormenti continua a portarseli dietro, match dopo match.
«Dai Sandro, dai!»
Un destro al volto ed ecco pronta la risposta a una domanda che si trascinava nel cervello da molti giorni.
Quella risposta non gli piace.
Ha appena scoperto che non incassa più come prima.
Ora ha un altro fardello da portare sulle spalle.
Negli Stati Uniti i tifosi chiamano Charley Austin con un curioso soprannome. Per tutti è Bad News. Non si smentisce, anche stavolta ha portato con sé un carico di cattive notizie.
Insieme al kd e alla sorpresa di una finora sconosciuta fragilità, Mazzinghi deve fare i conti con un brutto incidente. La caviglia destra, infortunatasi nella caduta, lo tormenta. Sembra abbia subìto una distorsione, fatica a stare in piedi, non può fare perno sulla gamba.
Ma è un uomo d’onore, un ragazzo pieno di orgoglio. Tira avanti, soffre, lotta, si difende e prova ad attaccare.
È una brutta serata.
I mille colori che come per magia erano apparsi davanti ai suoi occhi, ora hanno assunto sfumature sempre più scure. Dal grigio stanno girando verso il nero.
Poi, la svolta a sorpresa.
Il match si chiude alla nona ripresa quando l’arbitro dichiara la sconfitta dell’americano per knock out tecnico.
È l’inizio delle polemiche.
Da sempre Mazzinghi fatica a trovare comprensione, ha solo pochi giornalisti disposti a esporsi per lui. Ogni occasione è buona per scatenare la guerra.
Poco importa che Austin abbia un taglio profondo sull’arcata sopracciliare, ferita suturata con sei punti chirurgici. Per molti quella soluzione finale è arrivata con il solo scopo di favorire Sandro. Qualcuno va oltre e indica in Rino Tommasi il regista della prematura conclusione.
Adriano Sconcerti difende il suo pugile.
«Chi dice che Austin abbia abbandonato per fare cosa gradita a Mazzinghi è in malafede. Austin ha abbandonato solo perché la ferita sopra l’occhio era così estesa da richiedere sei punti di sutura. Ha abbandonato perché i colpi al corpo di Sandro stavano dando risultati positivi. Ogni volta che lo colpiva con un montante, quello strillava e si lamentava. Sia chiaro comunque che il Mazzinghi che abbiamo visto non era il campione che avevamo imparato a conoscere sino al secondo Mondiale con Dupas».
Tommasi si mostra offeso dalle illazioni.
«Sospetti ingiustificati. Anch’io sono rimasto sorpreso, ma non ho certo incoraggiato la decisione del pugile americano».
I medici dicono che il campione dovrà rimanere fermo per quindici giorni. La caviglia non continua a non dargli pace.
(da ANCHE I PUGILI PIANGONO di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free, vincitore del Premio Selezione Bancarella Sport 2017)