Droga, bullismo, morte Una vita disperata inseguendo la vendetta

La tramontana aveva rovesciato un vecchio cassonetto dell’immondizia, spargendo tutto attorno carta oleata, bicchieri di cartone e avanzi di cibo.
Camminavo con la schiena curva e la testa bassa, le mani affondate nelle tasche del giubbotto per difendermi dal vento gelido che tormentava Roma.
Una striscia di marciapiede sporca e piena di buche divideva la strada dal piccolo spiazzo di terra ed erba, pochi metri di miserie che finivano addosso alle antiche mura.
Attratto dal suono delle voci, avevo alzato la testa. Lo sguardo si era fermato su un gruppetto di persone che si agitava, ma solo un po’. C’era disagio nei loro movimenti.
Mi ero avvicinato e avevo ripetuto più volte le stesse domande.
“Che è successo?”
“Qualcuno sta male?”
Un signore aveva girato lentamente la testa verso di me. Con lo sguardo aveva incrociato il mio, solo per un attimo, poi era tornato nella sua posizione.
Mi ero fatto largo a gomitate e l’avevo visto.
Con le spalle poggiate sulle vecchie mura, il corpo di un ragazzo ormai senza vita raccontava l’ennesima tragedia figlia della droga.
Lo guardavo e mi chiedevo quale fossero state le sue ultime sensazioni.

Solo un vuoto nero. Nessun pensiero, nessuna coscienza, niente. Sono solo. Ed è tutto nero. Sto morendo, ma se qualcuno avesse il potere di svegliarmi, penserei che in fondo si è tratto solo di un breve sonno senza sogni.

Le gambe esili erano leggermente piegate all’indietro, aveva il braccio destro appoggiato sul petto. Accanto a lui, una siringa, un laccio emostatico, un accendino e una bustina di plastica. Il braccio sinistro era steso lungo il corpo, sul palmo della mano una medaglia color oro. Non avevo bisogno di leggere l’incisione, la conoscevo bene.
“Memorial Brindani, calcio a cinque, 2015”.
Aveva gli occhi chiusi, sembrava dormisse.

Il colorito bluastro, più accentuato sulle unghie e sulle labbra ma già diffuso in tutto il corpo, gli occhi spalancati con due pupille a spillo che sembravano chiedere aiuto e soprattutto l’assenza di segnali di attività cardiorespiratoria toglievano ogni illusione. L’angoscia si impossessava della nostra anima, allargandosi sempre di più, come il dolore che provavo in quel momento.
Quel ragazzo tra quattro giorni avrebbe compiuto ventitré anni.

Si chiamava Danilo Ferretti.

Era mio fratello.
Ed era morto.

Sono passati ventuno mesi da quella maledetta mattina di gennaio.
E io sono qui, all’interno di un buco che chiamano spogliatoio. Sulle pareti scrostate,  attaccati con chiodi arrugginiti, poster di vecchi campioni raccontano tempi migliori.
Fuori piove. Dentro, anche. Sul lato sinistro dello stanzino, vicino alla finestra, il soffitto trasuda umidità. È settembre ma fa già freddo.
Il locale non offre molto. Un bagno alla turca, una doccia che difficilmente funzionerà, una panca e un gancio dove appendere i vestiti. Uno spogliatoio in rovina, in un palazzetto di provincia. Ci sarebbe da piangere, se questo non fosse il cammino da percorrere per chiedere una tregua agli incubi che non mi lasciano dormire. La dignità rubata è l’ultimo dei pensieri.
Mi siedo sulla panca. Maestro e manager restano in piedi. Prendo la testa tra le mani, spero aiuti a isolarmi dal mondo. Fra un’ora salirò sul ring per l’ennesima sfida di una carriera che mi ha dato gioie e dolori.

Le urla del pubblico filtrano attraverso una porta sottile. La riunione è cominciata. I primi a entrare sul ring sono ragazzi al debutto, pischelli che sognano un futuro da campioni.
Io mi batterò nell’evento principale.
Una vecchia gloria al tramonto contro un giovanotto che ha bisogno di una vittima di rango per arricchire il record. Questo si aspettano.
Stasera avranno uno spettacolo diverso.
L’attesa è carica di tensioni, come nei primi anni che facevo questo mestiere. Inseguivo un sogno, avevo fame. Combattevo per scoprire i miei limiti, anche se mi illudevo di non averne.
Ora mi sembra che i confini, dello sport e della vita, siano segnati solo da strisce di odio, fiumi di rabbia. La cosa brutta è che sono a mio agio in questo mondo. Penso sia giusto prendere a pugni un altro uomo, fino a distruggerne ogni resistenza solo per il gusto di farlo. Lo so, la boxe non è questo. Il maestro me lo ripete in continuazione.
“Rispetto per te e per gli altri, sacrificio, concentrazione, determinazione. Pietro, questo è il nostro sport. L’altro vuole prendersi quello che credi sia tuo, per non permetterglielo devi essere più intelligente di lui. Chi pensa che il pugilato sia solo una questione di potenza non sa niente di questo sport, è con la testa che si vincono i match. Mi stai a sentire? Hai capito, Pietro?”
Mille volte lo stesso discorso e io a ripetere “Sì, maestro”, sempre e comunque. Anche quando dentro di me cresceva e si allargava quel buco nero che mi impediva di vivere assieme agli altri.

Da quasi due anni sono pieno solo di rabbia. E così, mentre il match si avvicina, dimentico le parole del maestro e tiro fuori lo spirito maligno che ho coltivato dentro di me.

Stanotte voglio metterlo in difficoltà, rubargli le certezze, punirlo fisicamente fino a farlo crollare giù, privo di conoscenza. In quel momento sarò io a gestire la sua vita. Solo allora, forse, ritroverò un po’ di pace.

Il tempo passa lentamente e io lo riempio di brutti pensieri. L’attesa si allunga e lentamente capisco che neppure stanotte riuscirò a trovare un po’ di serenità.
Penso alle poche parole scambiate con mamma prima di uscire di casa.
“Pietro, chiamami appena il match è finito. Lo sai che non ho la forza di guardarlo in tv.”
“Tranquilla, questo incontro e poi smetto. Stai serena, non ci sono pericoli. Non avere paura, chiudo in bellezza.”
“Sì, certo, continua pure a ripetermi questa cantilena. Non ti credo più. Stai attento, amore mio. Lo sai, lo sport che fai non mi piace, anche se so che dovrei essergli riconoscente: ti ha salvato. E forse sarebbe riuscito a farlo anche con tuo fratello, se solo ci avesse provato. Chiamami subito. Credo di avere già sofferto abbastanza.”
Sono un omone di trentuno anni. Alto 1.93 per centodieci chili di peso. Lo sport non mi ha reso ricco, anche se qualche soldo sono riuscito a metterlo da parte. La cattiva notizia è che non ho mai vinto un titolo importante, quella buona è che incidenti gravi non ne ho mai avuti. Un paio di costole fratturate, qualche taglio da cucire con una decina di punti, la mano sinistra messa male per alcune settimane. Roba così. Non finirò come qualcuno dei vecchi che incontro nella palestra dove mi alleno. Pugili con le gambe molli che non riescono a reggere neppure il peso del tempo. A ogni colpo che arriva, sentono la scossa. È l’ultimo segnale. Un po’ come accade a chi beve troppo. Alla fine, basta mezzo bicchiere per ubriacarsi.
Combatto nei pesi massimi. Una categoria in cui ogni colpo può mandarti al tappeto. Negli ultimi quattro incontri ci sono finito tre volte.
Il maestro Ottavio Ballarin, lo stesso di sempre, mi fa il bendaggio.  Si muove lentamente, lavora come un monaco. Con grande rispetto, attenzione e una vena di misticismo.
È alto e magro, con pochi capelli. Ha sessantasei anni, due baffoni ormai bianchi, la faccia è una ragnatela di rughe, solchi profondi che sembrano esaltare i vuoti lasciati da una vita che non gli ha risparmiato il dolore. Una mamma malata è il peso che si porta dietro e che riempie ogni giornata. La palestra, i ragazzi, la boxe servono a regalargli qualche pausa di serenità. A match finito manda giù un bicchiere di troppo e comincia a viaggiare in un  mondo tutto suo, fatto di tante parole, ricordi felici, sogni che non si realizzeranno mai. Il vino l’aiuta a non pensare che prima o poi dovrà tornare a casa.

Avevo dodici anni quando sono entrato nella sua palestra.

A casa, ogni mattina salivo sulla bilancia dopo aver chiuso la porta del bagno a chiave. Me ne stavo lì a fissare la lancetta che si fermava a 130 chili. Decisamente troppi per un ragazzo alto 1.65.

A scuola vivevo un incubo continuo.

“Suicidati, obeso di merda!”
“Sei un ritardato, grosso e culone.”
“Sei patetico!”
“Fai schifo.”

E poi c’erano le spinte, le botte, le continue derisioni.

Avevo pochi amici e nessuno di loro era così forte da affrontare quei bulletti. E allora mi isolavo sempre di più. Mi sentivo responsabile della situazione, ero convinto che la colpa fosse a mia. Mi tagliavo le braccia e le gambe con una lametta.

“Vuoi solo metterti in mostra!” avevano urlato quelli quando, dopo l’ennesimo pestaggio, erano riusciti a vedere le mie braccia nude.

Non ce la facevo neppure a chiedere aiuto.
L’idea del suicidio si era fatta lentamente strada.

“Che campi a fa’?”
“Che speranze hai?”
“Di morire” rispondevo con un sospiro.

Un pomeriggio mi avevano aspettato in sei fuori dalla scuola e avevano cominciato a colpirmi con pugni e calci. Un gioco crudele. Risate volgari, pacche sulle spalle per farsi coraggio e continuare a massacrarmi.

Alla fine mi avevano pisciato addosso.

Ero pesto, mi sentivo triste, umiliato. Nella testa avevo solo pensieri di morte.

Ero tornato a casa deciso a farla finita.

“Pietro, vuoi parlare? Cosa hai? Io sono e sarò sempre qui, per te.”

Mamma Teresa era arrivata appena in tempo e mi aveva salvato.

Era stata la spinta che mi aveva convinto ad andare da uno psicologo, l’inizio di un lungo cammino pieno di sofferenza e difficoltà. Ma loro sapevano cosa fare. Con delicatezza avevano cercato di ristabilire un equilibrio emotivo, senza invitarmi a una reazione immediata. Sarebbe stato inutile, perché in quel momento non sarei stato in grado di reagire.

Poi mamma aveva tirato dentro anche Ottavio.

“Portalo da te, in palestra. L’impegno continuo, il rispetto delle regole, l’esercizio fisico potrebbero compiere il miracolo e tirarlo fuori dall’angoscia che lo sta distruggendo, magari riuscirebbero anche ad  allontanare quei terribili pensieri che si porta dietro. Lo psicologo è d’accordo. Facciamolo questo tentativo, ti prego.”

Era andata bene.

In quel vecchio locale di periferia avevo ritrovato la serenità, avevo perso i chili di troppo, avevo riacquistato fiducia. Avevo abbandonato il desiderio di morire, mi era tornata la gioia di vivere.

Col tempo sono addirittura diventato un pugile professionista.
Adesso i bulletti di un tempo girano alla larga.

Ottavio e il manager parlano sottovoce in un angolo dello spogliatoio. Un urlo più forte degli altri arriva come un segnale di pericolo alle nostre orecchie. Un incontro è finito prima del previsto, qualcuno deve essere andato knock out e in questo momento starà pensando alle ore passate in palestra a faticare, alle facce deluse degli amici, alla moglie che ha sofferto nelle prime file di ring, al figlio a cui ha promesso un regalo che non potrà comprare. Un altro pugile starà saltando di gioia. La boxe mischia felicità e disperazione nello spazio di sedici corde, il confine tra vita e sogni.
Un altro match e poi toccherà a me.
Il manager dice qualcosa. Parla piano, non vuole che io senta.
“Speriamo vada bene. All’inizio era un combattente di razza, lo è stato fino al quindicesimo incontro. Aveva motivazioni forti, poi si è imborghesito. Accade in ogni sport. Prendi l’ippica, un cavallo di tre anni va forte e vince, a cinque è finito”
“Ma va, Alberto! Non sapevo che anche i cavalli si imborghesissero”.
Alberto Soprani, il manager, è un uomo a cui piace vestire bene, anche se nessun sarto, per quanto bravo sia, riuscirà mai a mascherare quello stomaco gonfio da bevitore di birra. Come procuratore è fuori dagli schemi. Adora i suoi pugili. Sceglie per loro accoppiamenti che non propongano rischi eccessivi. Garantisce borse dignitose e, quando può e il ragazzo merita, riesce anche a portarli alla sfida per un titolo. Insomma, è una rarità.
Mancano venti minuti.
La tensione cresce, faccio un po’ di vuoto.
Il ritmo ce l’ho nelle orecchie. Un artista sa come stare in scena. Il tempo passa lentamente e i dubbi arrivano, sempre più numerosi, a tenermi compagnia.
Ricordo le attese dei primi incontri. Attorno a me c’era ottimismo, nessuno in quei giorni credeva potessi perdere. E adesso anche quel gentiluomo di Alberto mi paragona a un cavallo imborghesito.
Mi  muovo nel silenzio totale. Muti anche manager e maestro. Le urla del pubblico salgono prepotenti ancora una volta, poi lentamente tornano a essere un brusio lontano.

Bussano alla porta, un uomo entra e lancia un’occhiata veloce. Mi vede, sorride. Ha il fisico più pesante di un tempo, meno capelli, c’è qualche filo bianco su una barba appena accennata. Ma il faccione è inconfondibile e quegli occhi continuano a mandare lo stesso identico segnale di sfida. Stavolta però c’è una luce strana, diversa, fatico a capire cosa sia.

“Ciao Carlo, che vuoi?”
“Cominciamo bene. Da quando so’ nato me chiamano tutti Er Cionca. E adesso arrivo qui e torno alle elementari. A dittela tutta, me so’ dimenticato come me chiamo veramente.”
“Che vuoi?”
“Gli anni passano, caro Pietro. I miei non sono passati così male, anche se mi porto dietro la vergogna per quello che ho fatto da ragazzo. E l’incazzatura più forte è che non l’ho fatto per scelta, non sono stato capace de esse’ omo neppure in questo. No, ho seguito come una pecora i più forti. Ma il tempo passa e ho pensato sia arrivato il momento de chiede scusa. Voglio fatte capì che non ho più niente a che fare col Cionca di quei tempi.”
“Che vuoi?”
“A Pietro, ma sono le uniche due parole che conosci? Mi hai sentito?”
“Sì, ti ho sentito. Mi avete tormentato fino a portarmi a un passo dal suicidio e adesso arrivi nel mio spogliatoio a pochi minuti da un match e chiedi scusa. Che devo fare? Ti abbraccio e diventiamo amici? Mi sa che è meglio se te ne vai, lasciami in pace. Devo finire di prepararmi.”
“Ma allora non è vero che la sofferenza t’ha insegnato a esse’ un buon cristiano. Anche il peggior delinquente, se confessa con sincerità i peccati e si dice pronto a pagare le sue colpe per espiare, va almeno ascoltato.”
“Che vuoi?”
“So che ‘sto match pe’ te significa tanto. Volevo fatte sapè che io ci sono. Voglio solo statte vicino. Sarò un fantasma e tale tornerò dopo l’incontro.”
“Ciao Carlo, quando esci chiudi la porta.”
“Ho visto Paoletta. M’ha detto che vo’ esse’ sempre orgogliosa dell’omo suo.”
“E questo che vuol dire?”
“Che magari, se diventassi padre, giocare co’ tu’ fijo potrebbe aiutatte a curà le ferite.”
“Perché Paoletta è incinta?”
“E che che so io? Nun so mica er marito.”
“A Carlo, ma vattela a pjà ‘nder culo.”
“Ciao Pietro, pensa che il perdono libera l’anima, rimuove la paura. È per questo che il perdono è un’arma potente. Nun è mia, magari lo fosse. È di Nelson Mandela. Pensace.”

Un uomo dell’organizzazione entra nello stanzone. Mette dentro solo la testa, quasi abbia paura di venire contagiato dalla tristezza che si respira in questo buco.

“Ferretti, tocca a te. Tra cinque minuti sul ring”.
Mi sistemo la conchiglia protettiva, i pantaloncini, la vestaglia.
Il manager apre la porta ed esce. Lo seguo, il maestro poggia le mani sulle mie spalle. Il fumo degli effetti speciali, i fari dei tecnici della televisione, le telecamere e, in fondo al corridoio, il ring. Mi fermo solo un attimo, tiro su la gamba destra e sfioro con la mano la piccola medaglia color oro che porto sempre con me, nascosta in un taschino interno dei calzettoni.
Guardo verso l’alto e ripeto in silenzio una promessa vecchia di quasi due anni. Poi torno nel buio che riempie la mia vita. Sono sempre più solo, il match sta per cominciare.
Ancora qualche minuto e mi batterò contro Romeo Cenci. Ha i capelli rasati a zero e un tatuaggio maori sul lato destro del collo, è lo spacciatore che ha venduto l’ultima dose a Danilo.
L’attesa è finita.

Quando torno a casa è notte fonda. Paoletta mi viene incontro e mi abbraccia. Ogni volta che combatto si sente un po’ morire. Stavolta è andata bene. Ho sconfitto la voglia di vendetta che mi bruciava dentro. Posso guardarmi allo specchio e magari riuscire anche a sorridere.

Avrei voluto massacrarlo, umiliarlo, ucciderlo. L’avessi fatto, di certo non avrei ritrovato mio fratello. Avrei solo aggiunto il rimorso a una vita già maledetta da angosce, incubi e fantasmi.

Maledetta sia la vendetta, e se massacrano il mio fratello prediletto non voglio vendetta, voglio un’altra umanità.
(Elias Canetti)

Mi siedo sul letto.
Prima di addormentarmi, l’ultimo pensiero è per lui.
“Grazie, Cionca.”

(con questo racconto, IL PERDONO RIMUOVE LA PAURA, ho vinto il secondo premio al XLVIII Concorso del Racconto Sportivo del CONI) 

 

 

 

 

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