Questa mattina Paolo Curcetti se ne è andato per sempre dopo una lunga malattia. Era nato a Foggia l’1 agosto 1936. Tre volte campione italiano dilettanti, era stato azzurro nei pesi mosca all’Olimpiade di Roma 1960.
Da professionista: 11-3-1, 4 ko.
La scelta di fare un’esibizione davanti ai soldati americani, aveva portato a Foggia addirittura il grande Joe Louis.
Quando la guerra era finita, i militari avevano lasciato la base ed erano tornati a casa. Nell’ansia del rientro, avevano abbandonato sul campo quello che li aveva aiutati a passare lunghe ore di attesa. Il pugilato era stato un passatempo praticato con passione. E adesso che erano andati via, a parlare di quei giorni era quel che avevano lasciato in eredità: due ring, guantoni, sacchi e altro materiale ancora.
Molte di quelle cose erano state abbandonate in strada, era stato così che i bambini avevano cominciato a giocare alla boxe.
Vincenzo Affatato era un maestro di pugilato, ma era anche un uomo con tanta voglia di fare. Aveva messo in piedi una vera palestra. Vera per come poteva esserlo a quei tempi una palestra.
Paolo Curcetti ne era rimasto affascinato, anche se testimoni dell’epoca giuravano che lui al tempo si allenasse seguendo criteri molto personali. Ad esempio, facendo sparring con il cavallo di famiglia. O tirando colpi tremendi ad alcuni sacchi di grano. Il ragazzo aveva grinta, carattere, aggressività. Era un peso mosca combattivo, uno che viveva le tre riprese a ritmi pazzeschi, esercitando una continua pressione sull’avversario.
Aveva voglia di bruciare le tappe. E così, nel 1957, aveva fatto.
Una sorta di salto triplo. Campione italiano novizi ad inizio anno, campione assoluto a fine stagione. Era nato per la boxe, anche se non aveva molta voglia di rispettare i comandamenti. Amava la caccia, la preferiva agli allenamenti. Gli piaceva cavalcare. E anche questo per lui era decisamente più piacevole dei pomeriggi trascorsi a sudare, a dare e prendere cazzotti in palestra. Aveva fisico, determinazione, aggressività.
Rea e Poggi l’avevano chiamato in nazionale, Paolo (sotto la squadra azzurra, Curcetti è il primo da sinistra in ginocchio) non li aveva delusi anche se la sfortuna lo aveva perseguitato.
Nel quadrangolare di Roma, ultimo torneo di selezione per formare la squadra olimpica, si era ferito nel match d’esordio. Un taglio all’arcata sopracciliare gli aveva impedito di disputare gli altri combattimenti, ma i tecnici lo avevano comunque voluto in squadra. Troppo più forte rispetto agli altri. E poi il match disputato in vicinanza dei Giochi contro Dubrescu a Roma, era stato uno spettacolo di grandissima qualità. E lui quel match l’aveva vinto.
Veniva da una famiglia di contadini, vivevano a Foggia ma coltivavano la campagna in periferia.
Pugile come lui sarebbe stato il figlio Salvatore (foto sotto), che da professionista avrebbe vinto il titolo italiano, poi quello europeo e sarebbe arrivato a battersi per il campionato del mondo contro Bryan Mitchell.
Il migliore di casa, Salvatore. Era nato appena due mesi prima che l’Olimpiade romana avesse inizio. Alla boxe era arrivato con una decisione sofferta, quando aveva tredici anni. Mille ripensamenti, una carriera dilettantistica a corrente alternata, poi il professionismo dove però di soldi ne aveva visti davvero pochi. E così se ne era andato a lavorare a Parma. Faceva il muratore, sveglia alle 5 per il footing, poi altri venti chilometri per raggiungere il posto di lavoro. Otto ore senza sosta, prima del gran finale. Un duro allenamento in palestra. Per sette anni era andata avanti così. Poi, era tornato a Foggia.
Paolo accompagnava il figlio nella sua carriera da professionista. A ogni sfida di Salvatore, il papà ricordava, con nostalgia, i suoi tempi sul ring.
Tante speranze, qualche sogno, poi il ritiro. Era stato obbligato a prendere quella decisione. Un incidente in moto, un’altra delle sue grandi passioni, lo aveva costretto a interrompere la carriera.
Il ricordo più bello era rimasto quello di una grande semifinale europea contro Mimoum Ben Ali, numero 2 dei mosca in Europa e futuro campione continentale nei gallo. Un match perso, prima del limite, contro un forte avversario che lui aveva fatto comunque soffrire.
Paolo Curcetti la sua grande occasione l’aveva vista sfumare nel terzo match dell’Olimpiade romana.
Aveva da poco festeggiato i 24 anni, tre volte campione italiano, aveva disputato anche i campionati europei uscendo al secondo turno a Lucerna nel 1959, battuto dall’ungherese Toroc dopo aver superato il turco Incesu.
Lo allenava ancora il maestro Affatato, nella Palestra Alfonso Taralli, di cui Paolo è stato il primo campione. Coraggioso, attaccante, pronto a sfidare senza problemi qualsiasi avversario. Forte fisicamente, aveva il suo punto debole nel calo che subiva alla distanza. Mancanza di fondo dovuta, probabilmente, a quella voglia di godersi la vita in ogni aspetto, di non fare del pugilato l’unica ragione delle sue giornate.
Nel match di apertura, aveva sconfitto l’ugandese Francis Kisekka. Lo aveva letteralmente malmenato, anche se nella foga si era disunito, esponendosi ai colpi di incontro del rivale. Aveva comunque chiuso con verdetto unanime. Era felice, anche perché era stato proprio lui ad avere tirato il primo colpo del torneo olimpico romano.
Nel secondo combattimento aveva affrontato il belga Joseph Horny, uno che sembrava più portato per la maratona che per il pugilato. Scappava e poi scappava ancora, tentando di coprirsi con il sinistro in allungo. Paradossalmente, era stato proprio quel rifiuto a impegnarsi nella battaglia, a esaltare Curcettim, uno che nella bagarre si trovava a suo agio. Era andato a cercare il belga, lo aveva travolto, dominandolo letteralmente. Un altro 5-0 e il biglietto per il terzo turno era staccato.
L’avversario della terza sfida si chiamava Abdel Moneim El-Guindi, un egiziano.
Come al solito, Curcetti aveva cercato di travolgerlo sin dal primo gong. L’altro non si era lasciato intimorire.
L’azzurro era più veloce, portava ganci stretti ed efficaci. L’egiziano era più preciso. Una battaglia a corta distanza.
Nella seconda ripresa il foggiano si era ferito all’arcata sopracciliare sinistra, eccolo qui il secondo punto debole. Le ferite.
L’arbitro aveva chiamato il medico, il dottore era salito sul ring, aveva esaminato la ferita e poi aveva dato il suo consenso. Si poteva continuare.
Paolo Curcetti (foto sopra) era riuscito a tenere bene anche nel terzo round. Match incerto. Verdetto sul filo. Quattro giudici avevano visto prevalere l’africano di un soffio. Il quinto era stato per l’italiano. Il pubblico del PalaEur aveva accolto il risultato con un uragano di fischi.
La boxe si respirava come l’aria in casa Curcetti.
Pugile Paolo, come il fratello Gaetano, che avrebbe disputato l’Olimpiade di Monaco 1972, e i cugini Luigi e Antonio.
Se dico che non c’è stato un Curcetti che non abbia messo i guantoni, non penso di andare molto lontano dalla verità.
Non ho mai visto combattere Paolo Curcetti, ma ricordo bene Salvatore.
Poche settimane orsono il Covid-19 ha portato via anche Angelo Rottoli. Vedere andar via i pugili, a qualsiasi età e per qualsiasi motivo, è sempre motivo di tristezza.