In ricordo di Elio Ghelfi. Luoghi, battute, uomini e avventure

Ho aspettato un mese, prima di scrivere questa storia. A caldo, le emozioni stravolgono la realtà e la passione che ci metti dentro può sconfinare nella retorica.
Adesso penso di essere pronto.

Elio Ghelfi l’ho conosciuto i primi di marzo del ’77. Ero a Rimini per il campionato italiano dei pesi massimi. Una cosa dannatamente serie a quei tempi. Alfio Righetti, giovanotto di belle speranze, sfidava il mito di Bologna: Dante Canè. Elio era all’angolo del romagnolo.
Avevamo parlato a lungo, passeggiando in centro. Lui era sulla difensiva, voleva capire chi avesse difronte prima di lasciarsi andare a qualche confidenza.

Tanto per spiegarmi meglio, ricordo benissimo la differenza tra quell’incontro e quello di un primo pomeriggio di dicembre, otto anni dopo. Avevamo pranzato assieme, poi ci eravamo incamminati lungo il Marecchia, il fiume che attraversa Rimini per chiudere la sua corsa nell’Adriatico. Volevo capire come Loris Stecca si sarebbe giocato la rivincita con Victor Callejas e Ghelfi me lo aveva spiegato senza nascondersi dietro alcuna reticenza. Eravamo diventati amici.

Mi fermo un attimo per chiarire. Non pretendo di raccontare chi fosse nel più profondo dell’anima Elio, non posso farlo. Quello è un lusso riservato ai suoi familiari. Io mi limito a parlare dell’uomo che ho conosciuto in tanti anni di frequentazioni in ogni angolo del mondo.

Ci siamo incrociati a Rimini, Sassari, Milano, Clermont Ferrand, Dunquerke, Las Vegas, Atlantic City, Detroit, Cesena, Siracusa, Bologna, Aosta, New York, Teramo, Camaiore e centro altri posti ancora. Il bello era che ogni volta che ci sedevamo per una chiacchierata, era come se fossimo a casa nostra. Perché ci sentivamo a nostro agio, contenti di essere lì a parlare con un amico.

Elio era uno che ti guardava negli occhi, scoprivi subito quando stava per dire una cosa importante. Si tirava leggermente su gli occhiali, premendo con l’indice della mano destra sul nasello. Era quello il segnale che il discorso stava per farsi interessante.

L’ho visto commuoversi fino alle lacrime almeno due volte. A breve distanza l’una dall’altra.

La prima l’11 febbraio del 1984 nella pancia della Joe Louis Arena di Detroit. Luigi Minchillo era sdraiato, esausto, sul lettino dello spogliatoio. Aveva appena concluso dodici drammatiche riprese contro Thomas Hearns. E lui, il maestro a cui Giovanni Branchini lo aveva affidato qualche tempo prima, gli era riconoscente. Il modo in cui il guerriero pugliese si era comportato in quella sfida aveva esaltato anche le qualità di Ghelfi che si era così preso una rivincita sui tanti parolai che inflazionavano l’ambiente.

L’altra volta che ho visto piangere Elio è stato a Milano, alla fine del mondiale vinto da Loris Stecca contro Leo Cruz. Un capolavoro del pugile, un piano tattico perfetto del maestro.
Accarezzava dolcemente il campione, aveva il tocco di un papà affettuoso. Umberto Branchini sedeva su uno sgabello all’angolo della sala. Erano tutti sconvolti, sfiniti, ma felici.

Ghelfi era stato uno dei protagonista della svolta.
Il nono round era stato quello della sofferenza, della rivoluzione.
L’unico in cui Cruz avesse evidenziato una netta superiorità.
Era anche stata la ripresa in cui il dominicano aveva perso il match.

Logorato da anni di battaglie, sapeva che non ce l’avrebbe fatta a sostenere il ritmo imposto dallo sfidante. E allora aveva tentato la soluzione di forza. Un attacco disperato. Tre minuti di sofferenza pura per Stecca, in difficoltà sì, ma mai sul punto di cedere.

Quando era suonato il gong, il clan del campione aveva capito che il destino era segnato. Leo aveva esaurito il forcing e non era riuscito a chiudere il match. Adesso era in riserva di energie.

Loris era tornato all’angolo, stanco ma non provato.
Come stai?
Non ne posso più!
Non poteva cedere, ero certo in cuor mio che quella sera saremmo diventati campioni del mondo.
Va bene. Ora tu sei il campione, l’unica cosa che devi fare è difendere il titolo. Lui è finito, non ce la fa più.
(da Con i miei sogni all’angolo del ring, di Elio Ghelfi)

Stecca aveva ripreso a boxare come se l’incontro fosse appena cominciato. Un mulinare di braccia, un’esaltante galoppata, una splendida prestazione.

Il titolo era finito nelle sue mani.

Loris aveva reso omaggio al maestro.

«Ho capito che per arrivare in alto devi soffrire. Ci sono momenti in cui ho pianto, momenti in cui avrei voluto lasciar perdere tutto. Ma poi ho capito. Devo ringraziare gli scappellotti di Ghelfi, il suo continuo ripetere che dovevo maledire il mondo, ma non dovevo mai arrendermi».

Elio, l’ho già detto, faticava a dare confidenza. Ma quando capiva che poteva concedersi quel lusso, si apriva totalmente. E raccontava storie, si lasciava andare a battute che inevitabilmente chiudeva con una linguaccia da fare invidia al logo dei Rolling Stones.

Con Alfio Righetti aveva sfiorato l’impresa a Las Vegas contro Leon Spinks. Avesse vinto, sarebbe stato il massimo romagnolo a sfidare Muhammad Ali.
Mike L. Sullivan aveva raccontato ogni dettaglio di quella semifinale mondiale sul Corriere dello Sport. L’informatore, il gola profonda del giornalista era una persona fidata: proprio Elio Ghelfi. E, adesso posso dirlo, il nome quell’inviato non esisteva. Era lo pseudonimo dietro il quale mi nascondevo.

All’angolo il maestro romagnolo era un’autorità.

Così me l’ha descritto Meo Gordini durante una chiacchierata fatta a Milano Marittima, lo scorso settembre.

Un fenomeno. Grande intuito, intelligente, ottimo psicologo. Nel minuto di intervallo non aveva rivali. Non tutti riescono a rendere al massimo in quei momenti. Lui era sempre concentrato sull’obiettivo. Una sera lo vedo in un incontro in cui era impegnato Pierangelo Pira, peso welter, mancino romagnolo, idolo dei tassisti riminesi. Affronta un francese, non certo un campione, comunque un pugile che era venuto a giocarsi il match. Uno stilista. Pira per tutto il primo round non riesce a mettere a segno un solo colpo. Uno schifo. Torna all’angolo, si siede sullo sgabello. Mi aspetto la sfuriata del maestro Ghelfi. E invece Elio allarga le braccia e comincia a urlare entusiasta: Bravo! Hai messo tanti di quei montanti che lui ha già piegato le gambe! Bravo, bravo, bravo! Nella seconda ripresa Pira parte a tutta e il francese va giù. In un minuto Ghelfi aveva trasformato il suo pugile.”

A Maurizio Stecca era legato da affetto, che a volte sconfinava nella tenerezza. Un rapporto reso sempre più intenso da infiniti pomeriggi passati a lavorare nella palestra della Libertas Rimini, sotto lo stadio del calcio. Elio con sulle spalle l’asciugamano rosso che gli aveva regalato Helenio Herrera, Icio con lo sguardo strafottente di chi è pronto a sfidare il mondo.

E dire che la prima volta che l’avevano visto entrare in palestra, un po’ ingobbito e appena 46 chili di peso, gli avevano detto: “Ma dove vuoi andare, tornatene a casa”.

Elio aveva grande fiducia in Icio.

Sapeva di avere tra le mani un gioiellino e come tale lo trattava. Per lui ha sofferto ogni volta che c’era da prendere una decisione importante.

Prima del mondiale con Espinoza non aveva dormito per una settimana. Era appena uscito da una malattia e quella vigilia carica di nevrosi non l’aveva di certo aiutato. Ma era fatto così. In quel ragazzo credeva fino in fondo.

Maurizio è uno dei più grandi pugili che l’Italia abbia mai avuto sul piano del talento puro”.

Ghelfi e Umberto Branchini, che coppia!
Si sono sempre dati del lei.

Lei, Elio.
Lei, Umberto.

Rispetto e grande fiducia reciproca.

E poi c’è quell’episodio che avrò raccontato mille e una volta…

Eravamo a Detroit, nel club sotto l’albergo che ci ospitava. Elio, suo figlio Ivan ed io. Si faceva fatica a vedere qualcosa, procedendo a tentoni eravamo riusciti a trovare tre sedie e un tavolino. Avevamo ordinato da bere. Ottima musica. Quando per un attimo si era accesa la luce, avevamo scoperto che di jazz agli altri frequentatori importava poco. Li ricordo con gli occhi dilatati e un equilibrio precario. Noi tre ci eravamo scambiati un’occhiata, neppure una parola, e appena la luce si era spenta ci eravamo persi di nuovo nella magia di quelle note.

Ghelfi la musica la amava, gli piaceva leggere. Mi ha raccontato più volte come sognasse di aprire un negozio che legasse le due passioni.

Amava la famiglia, gli amici.

Ha allenato campioni e ottimi professionisti.

Quando l’ho ricordato il giorno in cui se ne è andato via per sempre, li ho messi assieme come se dovessi comporre una filastrocca.

Righetti, Pira, Loris Stecca
Zavatta, Maurizio Stecca, Cevoli
Cavina, Mulas, Masini, Minchillo
Damiani, Santo Serio, Palmiero
Mastrodonato, Di Napoli, Morri

Aggiungo Giovanni Parisi e Patrizio Sumbu Kalambay, nei loro finali di carriera.

Era con Francesco Damiani quando è diventato prima campione europeo, poi mondiale. Era con lui nelle delusioni americane, prima con Ray Mercer poi con Evander Holyfield.

Damiani si infortunò. Una banale distorsione alla caviglia, causata da un tappetino. Mi adoperai per salvare il salvabile… Quando tutto sembrava compromesso presi da parte il ragazzo e gli parlai chiaramente: “Francesco, il medico mi ha assicurato che con delle infiltrazioni non avvertirai alcun dolore alla caviglia. Perché non farlo questo incontro? In fondo si tratta di guadagnare un mucchio di quattrini. Vediamo. Facciamo due o tre riprese, poi se le cose volgono al peggio non ti alzi dallo sgabello. Pensaci, prima di rifiutare. Rifletti.” Francesco Damiani non se la sentì di salire sul ring contro Holyfield. Il suo orgoglio e la sua alta moralità sportiva ebbero il sopravvento su qualsiasi altra cosa e andarono oltre ogni miraggio.  Sono ancora convinto di avere agito per il meglio allorché insistetti per convincerlo a battersi”.

Così ha raccontato quei giorni nel suo libro Con i miei sogni all’angolo del ring.

Questo e altro mi viene in mente se penso a Elio.

Ricordo un uomo con cui era piacevole parlare, pieno di interessi, pratico, concreto, spesso capace di slanci emotivi.

Mi piaceva ascoltarlo quando, in riminese puro o anche con una loquacità appena impreziosita da quell’accento, passavamo intere notti a chiacchierare.

Maestro e psicologo all’angolo, bravo nell’analisi tattica del match, capace di tirare fuori il meglio da tutti i suoi pugili.

Non è stato un mago, un ruolo che non gli si addiceva. Ma è stato sicuramente un fuoriclasse. E, soprattutto, ha lasciato su questa Terra tanta gente che gli vuole davvero bene.

 

 

 

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