Todisco, Giochi di Los Angeles ’84. Storia di un piccolo grande uomo

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Salvatore Todisco aveva i capelli scuri tagliati a caschetto, il fisico snello. Magro, agile, grande tempista e nessuna paura. Ha vinto un argento olimpico a Los Angeles ’84. Sei anni dopo la sfortuna ha presentato il conto. Una giornata di pioggia torrenziale, la macchina che sbanda sulla E45 all’altezza di Colle Valenza, lo schianto contro il muretto spartitraffico. La morte. Tornava da Napoli per andare a Santa Maria degli Angeli dove aiutava come allenatore Franco Falcinelli. Era il 25 novembre del 1990,  aveva solo 29 anni. Mi piace ricordarlo così, con il racconto di quell’impresa californiana.

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Soffre in modo diverso Salvatore Todisco. Ha il braccio destro ingessato, si presenta così alla finale contro Paul Gonzales.

Sconfitta per giustificata rinuncia. L’argento è comunque un premio che il ragazzo del Vomero ha meritato.

Il cammino è stato pieno di ansie. Per ogni match, identico finale. Lui che torna all’angolo e fa ai maestri Falcinelli e Mela la stessa domanda.

«Ditemi la verità, ho vinto? La verità per favore!»

«Hai vinto» due parole come risposta, un sorriso a rafforzare il concetto.

Boxare da minimosca, a quarantotto chili, è davvero dura.

Soprattutto se sei alto 1,62. Lo scorso anno agli Europei di Varna l’ho visto soffrire al limite del dolore fisico. Dopo le operazioni di peso si è precipitato al tavolo dove gli hanno fatto trovare un piatto di spaghetti al pomodoro. I compagni di squadra, un po’ giocherelloni e un po’ bambinoni, gliel’hanno tolto dalle mani minacciando di buttarlo sul pavimento del pianterreno. Eravamo sul ballatoio del terzo e Salvatore per recuperare quel piatto ha rischiato di finire di sotto anche lui.

Qui in California ha battuto un irlandese, un portoricano (sopra il video della vittoria su Rafael Ramos, la telecronaca è di Howard Cossell) e un pugile dello Zambia. Proprio la semifinale contro Keith Mwila è stato l’ostacolo più duro.

Tornato all’angolo alla fine del secondo round, si è accasciato sullo sgabello scuotendo la testa.

«Salvatore, non devi cedere proprio adesso, c’è la finale in palio. Dai tutto quello che hai e portiamo a casa una medaglia importante» l’ha incitato Franco Falcinelli.

«Mae’, so’ stanco. Chillu, o niro, se mangia ‘e cape de’ criature!»

Traduzione per i non napoletani.

«Maestro, sono stanco. Quello, il nero, si mangia le teste dei bambini!»

Ma al suono della terza e ultima ripresa si è alzato e ha vinto anche quella.

Il peso è l’incubo più grande, da sempre. L’ha scacciato con tanto allenamento e la rinuncia a qualsiasi mezzo di trasporto. Sia esso pubblico o privato. Todisco a Napoli viene giù dal Vomero a piedi ogni mattina e risale a piedi il pomeriggio.

Va a scuola all’Istituto Professionale Gianlorenzo Bernini. Tre chilometri all’andata, tre al ritorno con il passaggio più faticoso alla Calata San Francesco. Gradini e gradoni da superare in velocità, senza fermarsi mai. Da via Belvedere a via Arco Mirelli. Per lui una passeggiata, li facessi io avrei il fiatone per una settimana.

La frattura toglie dalla finale l’artista del Vomero.
Gli resta la gioia di un argento prestigioso.

Una medaglia da dedicare al passato, Nino Camerlingo.

E al presente, Geppino Silvestri.

Copia di cover1

(da I miei Giochi di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free, 314 pagine, 16 euro)

 

 

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