
È morto a Roma, per una crisi cardiaca, il giornalista e scrittore Gianni Minà. Aveva 84 anni.
Quando ho appreso la notizia, ho rivisto il suo sorriso. Trasmetteva serenità, anche se dentro sentivi che nascondeva una grande frenesia. Ha inseguito storie in ogni angolo del mondo, ha intervistato molti protagonisti della storia. L’arte era il suo terreno di gioco. Fosse letteratura, musica, cinema, ma anche sport, era comunque lo spazio in cui gli piaceva vivere. Era un giornalista nella mente e nel cuore.
Gianni il mestiere lo faceva all’antica. Scarpinate, appostamenti e poi la sua specialità. Fare domande, stimolare risposte che rivelassero l’animo di chiunque stesse intervistando. Aveva una dote poco comune, sapeva ascoltare. A volte si lasciava incantare dalle parole, gli piacevano così tanto che non riusciva a fermarsi.
L’ho conosciuto in una delle sue tante vite. Quando collaborava con il Corriere dello Sport, negli anni Settanta. A volte si appassionava troppo, esagerava. Un giorno ho sentito Giorgio Tosatti, il direttore, urlare dalla sua stanza. Gianni aveva dettato un pezzo dagli Stati Uniti, una storia di pugilato. Diciotto cartelle, oltre mille righe di testo. Tutto a braccio, mi spiego meglio: senza avere scritto prima neppure una parola. Ammirazione per la prestazione, ma quell’articolo se pubblicato avrebbe riempito almeno quattro o addirittura cinque pagine del giornale.
Ha raccontato avventure meravigliose. Il pugilato è stato una delle sue grandi passioni. In Italia non si può nominare Minà senza associare al suo cognome quello di Muhammad Ali. Erano amici, davvero.
Una volta, parlo degli inizi della carriera del campione, per parlare con lui ha nuotato su un mare di teste. Letteralmente. C’era una folla incredibile attorno al ring quando Ali è sceso dopo una delle tante vittorie. E Gianni era lì, microfono in alto, urla all’operatore che lo assecondava, voce a tutto volume per farsi sentire dal suo amico fenomeno. Un pezzo di pregevole giornalismo, per fare bene il mestiere non aveva paura di sporcarsi le mani. Ha raccontato Ali come uomo, come campione, come padre e marito. Ha intitolato uno dei suoi ultimi libri IL MIO ALI. Perfetto, era proprio così. Raccontava quello che altri non vedevano.
Sulla boxe ha realizzato, in collaborazione con Roberto Fazi, la più bella serie che sia mai stata portata sul piccolo schermo. Si chiamava FACCE PIENE DI PUGNI. Erano gli anni Ottanta quando quei fighter, grazie a Minà, sono entrati nelle nostre case. Si sono presentati a vecchie signore che di pugilato non volevano neppure sentire parlare, a giovani che avevano altro a cui pensare. A ricchi e poveri, agli uomini colti e a quelli che avevano risparmiato nello studio. Tutti sono stati conquistati da quelle storie. Qui Gianni è stato un po’ come Ali. Universale.
Ha raccontato con passione Pietro Mennea che conquistava il record del mondo sui 200 metri nel 1979 a Città del Messico. Ha cercato di scavare nell’animo di Diego Armando Maradona. Lo sport era un terreno da esplorare, da narrare. Non a caso ha cominciato collaborando con Tuttosport, di cui poi è diventato direttore. Ricordo alcune sue mitiche riunioni con i compagni di avventura, fuori dall’albergo che ci ospitava durante l’Olimpiade di Atlanta nel 1996. Lezioni di giornalismo. Uno spettacolo. Ha avuto in Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson due esempi da seguire. Non si è fatto mancare il sacro fuoco del tifo, il Torino era il suo riferimento calcistico.
In Rai ha messo assieme racconti bellissimi.
Era convulso nella preparazione. Al limite del disordine, solo lui riusciva a orientarsi nel caos che metteva in piedi. Aveva una trasmissione nel tardo pomeriggio, ogni tanto chiamava la nostra redazione per un numero, un aggiornamento, un nome.
Un giorno suona il telefono sulla scrivania di Sergio Rizzo, all’epoca caporedattore del Corsport.
“Sergio, sono Gianni”.
Ciao, dimmi.
“Ho bisogno di un favore”.
Dimmi.
“Mi serve il record di…” e dice un nome che adesso proprio non riesco a ricordare.
Lo cerco, intanto ti passo Dario. Magari lui se lo ricorda senza controllare sul Ballarati (parlo della Bibbia del Pugilato, ogni match disputato, lì eri sicuro di trovarlo).
Ciao Gianni, sono Dario. Ripetimi il nome… Gianni, il nome. Gianni!
Alzo lo sguardo e lo vedo in tv che parte con la sua trasmissione.
Gianni Minà era anche questo. Non si potevano imporre tempi e regole a un fuoriclasse del nostro mestiere.
Ha intervistato Robert De Niro, Sergio Leone, Gabriel Garcia Marquez, Roberto Benigni. E soprattutto ha intervistato per sedici ore Fidel Castro. Il nastro di quella lunga chiacchierata l’ha poi donato alla Cineteca di Bologna per il Fondo Minà.
Dal 1981 al 1984 ha condotto Blitz, un intreccio tra lo spettacolo e l’arte dell’intervista. Non ricordo se fosse in quella trasmissione, ma so praticamente a memoria ogni parola dello spezzone di teatro puro messo in piedi assieme a Massimo Troisi e Pino Daniele. Creato per festeggiare il compleanno del cantante, via via si era trasformato in uno atto unico di grande impatto.
Negli ultimi tempi scrivo di amici che se ne sono andati via per sempre, portandosi dietro brandelli della mia vita. Mi intristisco nel raccontarli, ma allo stesso tempo ritrovo dolcemente il vecchio sapore di ore, giorni, anni passati assieme.
Non posso chiudere questo ricordo di Gianni Minà senza dirgli grazie ancora una volta. È stato per il suo intervento che, nel dicembre del ’91 in un ristorante di Milano, sono riuscito a fare una lunga intervista a Muhammad Ali. Ho la foto sulla scrivania, a testimonianza di quanto sia legato a quel momento.
Faceva tutto con passione, sensibilità, infinita curiosità e la voglia mai sopita di raccontare l’uomo che si nascondeva dentro il corpo del campione.
Ho cercato di ricordarlo scrivendo quello spezzone di vita che ho conosciuto. Non pretendo di conoscerlo come o meglio di altri, ma so per certo che è stato un campione.
Il giornalismo non è un mestiere che consenta un tempo libero autonomo rispetto alla professione. Richiede una vocazione. Se quella vocazione non c’è, è inutile provarci. (Eugenio Scalfari)
Gianni Minà quella vocazione l’ha sempre avuta.