Sandro ci ha lasciati due anni fa. Così raccontava il suo momento magico…

Sandro Mazzinghi ci ha lasciati il 22 agosto del 2020. Mi piace ricordarlo con un’intervista che gli ho fatto nel 2018, cinquant’anni dopo la storica vittoria contro il coreano Ki-Soo Kim, quella che gli ha dato il titolo di campione del mondo Wba dei superwelter. Un match indimenticabile…

Sandro Mazzinghi, quale è il ricordo più intenso dell’incontro con Ki-Soo Kim?
“Avevo trent’anni, quella era la mia ultima chance per risalire sul tetto del mondo. Dovevo farlo per me, per mio fratello Guido che era stato come un padre e per tutti i tifosi. Perché la corona l’avevo persa immeritatamente tre anni prima, dovevo riportarla a casa in ogni maniera. Ricordo tutto di quella sfida: l’attimo in cui controllai le fasce alle mani, quando arrivò la chiamata dell’arbitro Harold Valant. Anche quando travolsi il coreano alla terza ripresa con una serie di colpi terrificanti: l’arbitro lo contò, io mi illusi di aver vinto, ma Ki-Soo Kim, non so come resuscitò (credo che a salvarlo sia stato il gong). Da quel momento in poi fu sofferenza pura per altre dodici riprese, con il pubblico impazzito per uno spettacolo unico. Quel combattimento è entrato nella storia. Fu davvero una grande vittoria, quando mi consegnarono la corona mi sentii l’uomo più felice e appagato del mondo. Perché col sacrificio ero riuscito a prendermi la rivincita che meritavo”.
Quale è stata la prima sensazione mentre entrava a San Siro, davanti a un mare di folla?
“Commozione pura, quelle sessantamila persone erano tutte lì per me. Era un match importante per la mia vita, volevo a tutti i costi il titolo e poi c’erano in ballo molti soldi, un giro d’affari milionario. Sentivo sulle spalle una grande responsabilità”.

Cosa ha pensato dopo il suono dell’ultimo gong?
“Ho pensato che era finalmente finita. Ero esausto, sapevo che il titolo era ritornato nelle mie mani e quando hanno annunciato il verdetto mi sono messo a piangere di gioia, subito dopo ho sentito il boato della folla. Mi emoziono ancora a parlarne…”
Quanto è stata dura quella battaglia?
“Kim era fortissimo incassava anche le cannonate, sono stati quarantacinque minuti di pura follia. Una vera corrida, un match durissimo lungo 15 incredibili riprese. Lo stadio di San Siro era pieno, tutti gli spettatori gridavano il mio nome, volevano che mi riprendessi il titolo. Sarei morto pur di non far ritornare il mondiale in Corea. È impossibile dimenticare quei momenti. La boxe era la mia vita”.

Come definirebbe Ki-Soo Kin come pugile?
“Era un grande campione, molto astuto. E poi c’era quella testa sempre bassa che mi creava non pochi problemi. Era preparatissimo, era venuto a Milano per battermi ma sapeva che anche io alla corta distanza ero pericoloso. In Corea lui era campione del mondo anche nelle arti marziali”.
Come descriverebbe la sua popolarità dopo la vittoria?
“La mia popolarità era già molto alta, con Kim esplose in maniera pazzesca, ma io sono sempre stato un uomo con i piedi per terra. Non nascondo però che quando sei osannato da tutti, ti senti un uomo diverso”.

Sulla sfida contro il coreano sono state dette molte cose, c’è un segreto che non è stato mai svelato?
“Beh non so se sia un segreto, per farlo venire in Italia l’organizzazione gli offrì una borsa enorme per l’epoca: 55.000 dollari. Ma non tutti sanno che, in parte, quei soldi aumentarono indirettamente anche l’entità della mia borsa. Avevo strappato un contratto favoloso, oltre al compenso fisso avevo preteso una percentuale sugli incassi. Fu davvero una scelta giusta. Basti pensare che solo per la pubblicità il mio sponsor, la IGNIS del commendator Borghi, staccò un assegno in bianco dicendomi metti qui la cifra che vuoi, scrissi un numero e lui senza guardare mi disse: “Accetto, qua la mano”.

Rivede mai il video di quel mondiale?
“Ho un archivio pazzesco, ma non amo però rivedere spesso i miei match. Capita a volte di avere amici a cena e a volte succede che mi chiedano di rivedere alcuni miei incontri. Quello con Kim è il più gettonato. Ogni volta che lo riguardo mi emoziono: rivedo le smorfie di dolore, la fatica, la tenacia di tutti e due. Insomma, mi batte ancora oggi il cuore”.
Cosa ha significato per lei quel combattimento?
“Tanto, se non tutto. Mi ero sacrificato per tre anni pur di riportare il titolo in Italia. Quando sono tornato campione mi sentivo l’uomo più felice del mondo. Primo perché avevo di nuovo la mia cintura. Secondo perché avevo ancora una volta fatto vedere agli scettici che non ero un pugile finito. Terzo, ed era il fattore più importante, perché stavo realizzando il mio sogno: avere una casa, una famiglia e una buona stabilità economica”.

Cosa ha significato quel match per la boxe italiana?
“Credo molto, un combattimento cosi non lo vedi tutti i giorni. Due tori che si sfidano nell’arena, una battaglia fantastica. Ancora oggi in tanti si ricordano quell’incontro di cinquant’anni fa. Penso che per la Federazione Pugilistica Italiana e per l’Italia abbia significato tanto in termini di prestigio, popolarità, interessi. Era un chiaro segnale di quanto il nostro pugilato fosse osannato, non solo qui ma anche all’estero”.

Jpeg

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