Giacobbe “Jake” La Motta era nato a New York il 10 luglio 1922. Il 14 aprile del 1985 ero a Las Vegas per il mondiale dei medi Hagler vs Hearns, che si sarebbe svolto il giorno dopo. Ero stato fortunato, avevo ricevuto un invito per la festa di matrimonio, l’ennesimo, del Toro del Bronx. Il mio omaggio per il compleanno del campione è stato, per molto tempo, il ricordo di quella magica serata. Oggi quel racconto ha un sapore speciale. Scrivo da Montreal, Canada. Il fuso orario mi permette di non essere in ritardo con un anniversario importante, il centesimo della sua nascita. Lui se ne è andato via per sempre il 19 settembre del 2017….
Il vecchio Jake stava suonando un piano a coda bianco. Indossava uno smoking dello stesso colore, aveva un minuscolo papillon nero al collo di una camicia di un bianco accecante. Jake La Motta stava festeggiando il matrimonio con Theresa Miller sulla scalinata accanto alla piscina all’aperto del Caesars Palace di Las Vegas. Era la sesta volta che si sposava e a giudicare dal sorriso sembrava proprio divertirsi.
Avevo avuto la fortuna di sedere a un tavolo vicino al pianoforte e potevo sentire Jack mentre sparava battute a raffica.
«Una delle mie mogli era una donna davvero strana. Le piaceva fare l’amore sul sedile posteriore della nostra macchina. L’unica cosa che mi chiedeva, era di guidare con attenzione».
Pausa, il tempo per godersi l’applauso, poi un’altra battuta.
«Voi tutti ricorderete Vickie, la mia seconda moglie. Vickie era sempre preoccupata, diceva che non aveva nulla da indossare. Non le ho creduto fino a quando non l’ho vista su Playboy.»
A due tavoli dal mio sedeva Sugar Ray Robinson. L’avevo visto qualche giorno prima, era stato un incontro triste. Il grande campione se ne stava afflosciato su una sedia alle mie spalle. Alla sua destra la moglie, a sinistra un amico che lo sorreggeva. Davanti a noi, su un ring che sembrava preso di peso da una sagra paesana Thomas Hearns faceva finta di allenarsi. Una sessione di guanti pubblica con uno sparring lento, impacciato, incapace di impegnarlo.
Eravamo al Convention Center, Ballroom Four, del Caesars Palace. Tappeti ovunque, musica a palla e in fondo alla sala un ring. I tifosi avevano pagato due dollari per entrare. C’erano tremila persone in sala. Chiasso, urla, nessuna possibilità di concentrarsi.
Hearns salutava gli amici, rilasciava un’intervista televisiva, mimava addirittura qualche scena comica. Faceva le figure con Emanuel Steward, il manager/maestro era impostato in guardia falsa come Hagler. A volte si concedevano un giochino per la platea. Hearns sparava un colpo cattivo, il manager schivava e il pugile si ritrovava a colpire solo l’aria. Altre volte aveva avuto per sparring mancini veri come Cecil Pettigrew, Brian Muller ed il mediomassimo Charles Henderson. A fine sessione, Gino Lender, un altro uomo del suo clan, lo colpiva ripetutamente allo stomaco con un pallone medicinale.
Su uno dei due lati lunghi del salone, qualcuno aveva alzato un cartello bianco con una scritta rossa: “Le sentenze di Hearns”. E sotto quattro cartelli più piccoli.
«Sono in gran forma»
«Vorrei che il match fosse oggi»
«Manderò Hagler ko in tre round»
«Lo odio»
Poca fantasia, scarso gusto, inquietanti segnali di paura. Sugar Ray dietro di me, mormorava parole senza senso, non riusciva a capire le domande che tifosi incantati gli ponevano a raffica, li guardava con occhi tristi, poi mi batteva su una spalla.
«Chi ha vinto?»
Credeva fosse un match, era una seduta di allenamento.
E neppure troppo intensa.
La moglie lo proteggeva, pregando tutti noi di parlare con lei. La gente continuava a chiedere, incapace di capire che il vecchio campione non era più in grado di calarsi nella realtà. Ormai viveva in un mondo così lontano dal nostro da non avere neppure un punto di contatto.
Del mitico Sugar Ray Robinson era rimasto ben poco. Una faccia stropicciata dagli anni e dalla malattia, i baffetti e nulla più. Le parole che apparivano sui giornali tipo «Io li avrei battuti entrambi per ko», messagio rivolto a Hagler&Hearns, appartenevano all’ultima compagna di una vita che recitava una parte che non le apparteneva. Il mitico Robinson non era in grado di articolare una frase che avesse un senso compiuto. Aveva gli occhi velati di tristezza e, ma di questo non sono poi così sicuro, a poco meno di 64 anni sentiva già la vita scappargli via.
Jake La Motta (nella foto sopra la fase di un match col grande Sugar Ray, nella foto in alto manda fuori dalle corde del ring Robinson) continuava ad omaggiarlo.
«Io l’affrontavo cercando vendetta. Lui mi affrontava tirandomi pugni. Robinson ha aperto ogni cosa io avessi chiusa e chiuso ogni cosa avessi aperta. Ma c’è una cosa che potrai sempre dire parlando di me come pugile. Ho salvato la mia testa. Ho perso i miei denti, ma ho salvato la mia testa».
«C’è troppa violenza nel mondo. Molta di questa è stata perpretata su di me da Sugar Ray».
«Ho affrontato tante di quelle volte Sugar, che è un miracolo che non abbia il diabete».
Aveva uno strano corpo Jake La Motta. Tozzo per essere un peso medio, con un gran testone, due piccole braccia muscolose che sembravano messe lì solo per tirare mazzate. Su quel volto duro e pieno di rabbia potevi leggere, tra le rughe, le battaglie di una vita. Mi era bastato vederlo da vicino per capire quanto avesse sofferto, quanto avesse fatto soffrire.
Erano tutti lì i grandi della boxe, nel giardino all’aperto del Caesar Palace. Avevo visto Jake La Motta, Sugar Ray Robinson, Larry Holmes, Don Curry, Josè Torres. Erano lì per ammirare Marvin Hagler che avrebbe difeso il mondiale dei pesi medi contro Thomas Hearns. Grandi campioni a cui La Motta aveva rubato la scena. Almeno per quella sera, era tornato ad essere il protagonista assoluto. Un intrattenitore che, su testi di altri, si divertiva a prendere in giro anche se stesso.
«Lei ha divorziato perché io facevo a pugni con i colori delle tende».
Pausa, risate.
«Sono in gran forma per un uomo di 64 anni. Ogni arteria del mio corpo è dura come una roccia».
Altra pausa, altre risate.
«Mia moglie non si era accorta che ero un alcolizzato fino a quando, una notte, non mi ha visto sobrio».
Pausa, risate, applauso.
«Ehi Jake, raccontaci ancora quella su Rocky Graziano».
«Ve l’ho raccontata mille volte. Ma voi volete risentirla. E va bene. Quando il manager gli ha chiesto: “Vuoi combattere per la corona?”, lui ha risposto: “Uuhh, posso battere la Regina Elisabetta in tre round”. Vi giuro che è tutto vero, di mio non ho aggiunto una parola».
Era fatto così La Motta (nella foto tra Fulvia Franco e la sua seconda moglie Vicky). Donne, alcool, sigari, pugni e battute. Bob Arum e Rodolfo Sabbatini mi avevano dato un invito per la sua festa di matrimonio ed io mi stavo davvero divertendo. Ero arrivato a Las Vegas per lo show del Meraviglioso, ma non volevo perdermi nulla dello spettacolo che gli era stato costruito attorno. Un’aria magica circondava il grande evento. Ci sentivamo un po’ tutti La Motta in quei giorni. Smoking bianco e pianoforte a coda in tinta.
Le parole contano molto nella vita, non sempre i pugili riescono ad usarle con la stessa abilità dei pugni. Il vecchio Jake sa farlo come se fossero armi. E non sbaglia un colpo.