Leggo su Facebook un post di Alessandro FiIlippini, scuola Gazzetta dello Sport, e mi sento in colpa. Mi sono dimenticato di scrivere due righe su un amico/collega che se ne è andato via per sempre l’ultimo giorno del 2017. Sarà perché Daniele Redaelli è sempre presente nella mia testa, al punto che a volte mi viene voglia di chiamarlo e solo in quel momento realizzo che non posso farlo più.
Ma non devo accampare scuse, le due righe devo scriverle, come del resto faccio ogni anno per un altro compagno di trasferte e di risate con cui ho diviso gran parte della mia vita, Teo Betti del Messaggero. È un atto di egoismo più che un omaggio ai vecchi compagni di avventura. Sfrutto l’occasione, almeno una volta l’anno posso tornare a parlare con loro.
E allora mi dico che un pezzo d’annata piacerebbe anche a Daniele, perché a lui piaceva qualsiasi cosa fosse scritta con il cuore, non importava quando e dove fosse stata pubblicata.
Ecco, questo è quello che ho sentito nell’anima il giorno dopo la sua morte, quello che ho scritto l’1 gennaio del 2018.
Hanno scritto tanto su di te, amico mio. Ho letto tutto e mi sono detto: li hai stesi. Hanno detto solo belle cose, nessuno ha osato scrivere una parola che non fosse vera. Non c’è stato capoverso che non fosse sincero. Niente retorica o ipocrisia, solo ritratti che ti ricordavano così come eri, Daniele. Un tipo pacioso e focoso, uno a cui ho sempre invidiato una particolarità. Eri l’interlocutore perfetto. Mi facevi venire la voglia di chiamarti ogni volta che avevo dentro una domanda, a cui non riuscivo a dare una risposta.
Negli ultimi tempi ti ho sentito più spesso al telefono di quanto non ti abbia visto di persona.
Siamo stati compagni in più di una trasferta e colleghi nella progettazione, assieme a Gianfranco Colasante ex Coni, del Museo della Boxe che è stato aperto in febbraio a Santa Maria degli Angeli. Non sto qui a parlare di competenza, parlo di passione. Amavi il pugilato, ma soprattutto amavi i pugili. Lo vedevo quando gli parlavi, li guardavi con gli occhi del papà. Ti sembravano tutti bravi, anche i più scarsi.
Sul giornale non facevi sconti. Davi ai protagonisti dello sport quello che meritavano.
Agli amici invece, nella vita, davi sempre più di quanto loro non dessero a te.
E come un boomerang quel testimone è tornato a casa. Ho letto cose bellissime in tua memoria, Daniele Redaelli. Ed erano tutte vere.
Avevi 65 anni, quaranta dei quali trascorsi alla Gazzetta dello Sport. Mi sarebbe piaciuto lavorare in quella redazione di sport vari che hai amministrato a lungo con professionalità e umanità. Ne ho avuto testimonianza da colleghi, ne ho avuto conferma da un grande amico e professionista: Riccardo Romani. Nella dedica per il libro su Monzon, che abbiamo scritto insieme, lui ti ha ricordato così: “A nonno Mariano che mi ha fatto incontrare la boxe, all’amico Daniele che me l’ha fatta amare.”
E quando quel libro l’abbiamo presentato a Forlì, con Flavio Dell’Amore come relatore e Simona Galassi a fare da testimonial, tu hai fatto un’incursione a sorpresa.
“Dario, non dirlo a Riccardo. Voglio vedere come ci rimane.”
E Riccardo c’era rimasto benissimo, al limite delle lacrime.
Sei arrivato da Milano, hai assistito alla presentazione e sei ripartito per Milano. Seicento chilometri tra andata e ritorno, la metà dei quali nel buio della notte.
Eri fatto così, la gioia di un amico era anche la tua.
Solo ritratti sinceri per te, non meritavi né retorica né ipocrisia.
Così è stato.
Li hai stesi Daniele.
Nessuno ha osato dire su di te una parola che non fosse vera.
Ed erano tutte belle.