
Mi è sembrato in forma, un mare di parole come sempre. Stavolta però ho avvertito dentro quella continua necessità di raccontarsi, un profondo cambiamento. Stavolta, al di là della retorica che si impossessa della situazione, ha avuto davanti un nemico che non poteva sconfiggere da solo. Lui l’ha capito molto bene. Ci voleva il suo impegno fisico e mentale, ma anche l’aiuto della scienza, l’abnegazione dei medici, la fiducia nei ricercatori, la professionalità dei paramedici. Oggi, a un mese dai giorni in cui il male è cominciato, Maurizio Stecca ha ricominciato a fare progetti, ad analizzare il passato e preparare il futuro. Sono contento di come l’ho trovato. Vi racconto la nostra chiacchierata.

Icio, è finita?
Il Covid non c’è più, il tampone è negativo. Ma la strada è ancora lunga.
Quando ti sei accorto che stavi male?
Tutto è cominciato poco prima del 10 dicembre. Erano un po’ di giorni che mi sentivo strano, non mi andava di fare niente, non volevo incontrare nessuno, non mi tirava di parlare, preferivo stare solo. Poi è arrivata anche la stanchezza, allora mi sono preoccupato. Questo non sono io, mi sono detto. C’è qualcosa che non va.
E cosa hai fatto?
Prima ho chiamato il medico curante, poi il 118.
Sono arrivati subito?
Non proprio. Si sono convinti solo quando ho detto di essere solo in casa e di sentirmi così male che sarei anche potuto morire.
E cosa è successo dopo?
Sono arrivati i paramedici del 118, mi hanno visitato. Sono stati gentili e professionali. Poi mi hanno detto che dovevano accompagnarmi subito in ospedale. Mi hanno trasportato giù. Mi hanno detto che mi avrebbero messo la maschera per l’ossigeno, poi mi è sembrato di sentire la parola Covid. Ho cominciato ad avere paura. Ho messo un piede sull’ambulanza. A quel punto è calato il buio. Mi sono risvegliato sul lettino dell’ospedale. Erano passati quattro giorni, quattro giorni di cui non ricordo niente. Un sonno che si è portato via quattro giorni della mia vita.
Ti sarai fatto raccontare.
Certo. Sono stato in rianimazione, in terapia pre intensiva. Per me è come se avessi dormito per quattro giorni, senza svegliarmi neppure un secondo.
Dolori?
Per fortuna non così forti come so ne hanno avuti altri malati. Ma sicuramente una sensazione di spossatezza generale, fatica nella respirazione, debolezza soprattutto alle gambe, rinuncia a pensare, solitudine assoluta.
Per quanto tempo non hai visto i tuoi figli, la tua compagna Anna?
Di persona, è un mese che non li incontro. Qualche videochiamata, qualche chiacchierata al telefono. Per Natale avevo programmato di scendere a Rimini, di passarlo con i miei figli. E invece niente. Anche questo mi ha fatto molto male.
Quando ti hanno detto che il Covid era stato domato?
Il 28 dicembre, finalmente quel giorno il tampone era negativo.
Sei vaccinato?
Ho fatto due dosi, avevo l’appuntamento per la terza. Ma tre giorni prima è arrivato il Covid.
Ti sei chiesto quali effetti abbia avuto il vaccino sulla tua situazione?
Certo, l’ho anche chiesto a due importanti specialisti. Mi hanno detto che senza le due dosi avrei rischiato di non uscirne vivo.
Quanto tempo devi ancora rimanere in ospedale?
Non lo so. Adesso sono in una clinica specializzata nella riabilitazione. Faccio fisioterapia più volte nella giornata. Tutto quel tempo a letto ha indebolito le mie gambe, anche perché la patologia precedente non mi ha certo aiutato.
Mi ricordi quale è la malattia contro cui combatti da tempo?
È una sindrome che può causare la formazione di trombi che potrebbero ostruire il flusso di sangue a vari livelli.
Stai curando anche quel problema in questo momento?
Devo farlo. Mi hanno fatto delle trasfusioni, ora dovrò fare nuovi esami. Le gambe soffrono un po’, devo recuperare totalmente la respirazione. Ma la cosa buona è che il Covid è stato messo via.
C’è qualcosa di buono che porti via da questa esperienza?
Io sono un iperattivo, uno che fa le cose di scatto, uno che parla in continuazione. All’improvviso mi sembra di avere più tempo a disposizione per agire. Sarà l’età, sarà la paura provocata dalla malattia. Ma adesso penso di più, non corro, rifletto. E sbaglio meno.
E queste sono cose che fanno piacere, non è vero?
Non solo fanno piacere, ma aiutano a capire meglio la vita.
In che senso?
Prima inquadravo il mio passato in modo diverso. La vittoria all’Olimpiade, il titolo europeo e quello mondiale, erano dei successi sportivi. Li avevo trasformati in medaglie, diplomi e coppe. Eranno appesi lì, cose da vedere. Al massimo aggiungevo qualche foto. Ora sono diventati momenti concreti di vita, risultati sportivi che sono riuscito a cogliere, esperienze importanti. Adesso so veramente di avere fatto qualcosa di bello. Me l’ha fatto capire tutta quella gente che ha riversato su di me tanto amore.
Icio, ci conosciamo da quarant’anni. Sii sincero, in questo mese di grandi paure, hai pensato qualche volta al pugilato?
Qualche volta? Ci ho pensato sempre, perché io e la boxe siamo una cosa sola. È stata e sarà la mia vita. Prima erano sogni, poi sono diventate realtà, ora sono speranze. Già mi vedo fuori da qui, mi vedo tornare in palestra e riprendere confidenza con il mio grande amore, il pugilato. Perché Dario, io in palestra ci torno. Lo sai, no?
Certo Icio. Ne abbiamo viste tante assieme in giro per il mondo, tante altre ne vedremo.
Proprio così.
Quando spengo il telefonino, chissà perché, mi viene in mente un aneddoto di tanti anni fa. Era il 2 aprile dell’86, eravamo all’Ice World di Totowa nel New Jersey. Icio era appena salito sul ring per un match sugli otto round contro Ricky West. Il primo gong doveva ancora suonare, dalla platea si è alzato un urlo.
“Maurizio cafudda!”
La gente applaudiva a quel grido. Accanto al posto dove sedevo, il mio amico Elio rideva di cuore. Ho capito che quel termine doveva avergli ricordato qualcosa.
“È in dialetto siciliano stretto, vuol dire: picchialo, fallo nero! Sentirlo qui nel New Jersey mi ha fatto un certo effetto”.
Maurizio Icio Stecca, campione olimpico a Los Angeles ’84 e campione del mondo tra i professionisti, quel suggerimento l’ha sempre rispettato: 49 vittorie e 4 sconfitte (tre delle quali arrivate a fine carriera), campione italiano, europeo e mondiale. Un fuoriclasse del pugilato.
Ha combattuto anche stavolta, aiutato da uno staff medico fantastico (prima quello dell’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso, ora dall’equipe dell’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione di Motta di Livenza), senza mai cedere allo sconforto. Ha avuto paura, è normale. Ma ha sùbito scelto la strada su cui incamminarsi.
“Affidarsi al personale medico, credimi, è l’unica cosa che si possa fare in queste situazioni”.
E allora Maurizio, CAFUDDA! Qualunque sia il cavaliere selvaggio che provi a distruggerti, fallo nero.

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