Bobby, solo sul ring si sentiva sicuro. La vita era un inferno

bobby

Las Vegas, 7 settembre 2016

Ve la ricordate quella notte, vero?
La domanda è un colpo di pistola sparato a bruciapelo. Non ci sono urla dopo quelle parole. Arthur tira su la testa, muove lentamente le labbra, ma da quella bocca non esce alcun suono. Sbarra gli occhi, il volto è una maschera di sofferenza.
Come potremmo dimenticarla?
Rispondono, quasi in coro, gli amici.
Eravamo a Sacramento. E non era certo Salvadore Ugalde a metterci in agitazione. Quel messicano non avrebbe mai potuto battere Bobby”.
Arthur pronuncia ogni parola scandendola con cura, come se avesse davanti qualcuno che non capisce la sua lingua. Per tirarsi fuori d’impaccio manda giù l’ennesimo bicchiere di whiskey.
No!
È un monosillabo, basta per far tacere tutti.
“No!”
John si asciuga una lacrima, strizza gli occhi umidi.
Quella sera eravamo tutti lì a chiederci come riuscisse a fare una cosa del genere. Salire sul ring appena ventiquattro ore dopo la morte della moglie. Valerie aveva 31 anni. Si era uccisa nella grande camera da letto, al primo piano della loro casa. Aveva alzato al massimo il volume dello stereo e si era sparata un colpo di pistola alla tempia. Era morta in un lampo. Ci aveva già provato il mese prima con una dose di pasticche che avrebbe ammazzato chiunque, Bobby però era arrivato in tempo, era riuscito a salvarla. La seconda volta lei non aveva voluto correre rischi. Aveva aspettato di essere sola e l’aveva fatta finita.
Di nuovo silenzio.
Si era stancata”.
Arthur torna a parlare con un filo di voce. Lui Valerie la conosceva bene. Come conosceva da sempre Bobby. Erano cresciuti a Sylmar nella San Ferdinando Valley, nella grande Los Angeles. Tre ragazzi, quasi la stessa età.
È una notte maledetta. Notte di dolore e di ricordi che provocano altro dolore.
Bobby è morto!”
John annuncia la tragedia appena varca la soglia del vecchio e malandato bar di Las Vegas, lontano dalla Strip e dalle luci della città. Lì dove ogni sera incrocia amici che conosce da sempre. Nessuno ha la forza di replicare, ha pronunciato quelle tre parole con una voce piena di odio.
BOBBY È MORTO!
John urla, ha il cuore straziato. Non è una lacrimosa veglia funebre che vuole. Cerca qualcuno con cui litigare, gli piacerebbe prendersi a pugni con uno più giovane e bravo di lui. Uno capace di dargli una lezione, un colpo dietro l’altro fino a quando non si ritroverà per terra, ferito e triste. Pronto per piangere. Sente un bisogno irrefrenabile di farsi del male. Vuole soffrire sino in fondo. Avverte dentro il cuore un vuoto terribile. Per farlo andare via, pensa, l’unico modo è quello di farsi pestare a sangue.
BOBBY È MORTO!
Lo so”.
Sembra che Arthur fatichi terribilmente nel mettere assieme quelle due parole. Stira ogni ruga di una faccia disegnata da un maestro dell’orrore, poi cede alla tristezza, manda giù l’ennesimo scotch e chiude nuovamente la bocca. Quel silenzio dura poco, guarda una ad una le facce tristi degli amici e si lascia andare. Prova a mettere assieme un ricordo.
L’ho visto meno di un mese fa a Hemet, nella casa di cura dove era ricoverato da tempo. Parlava lentamente, strascicava le parole, la voce era flebile, sembrava uscisse da una bocca che non era la sua. Proprio come era accaduto una decina di anni fa quando lo avevano inserito nella Hall of Fame. Lucidità, buio totale, di nuovo lucidità. Nei periodi buoni ricordava date e nomi, ma la maggior parte del tempo viveva in un mondo in cui non lasciava entrare nessuno. Era solo, come lo è sempre stato”.
Un rumore violento e improvviso fa saltare i vecchi ragazzi sulle sedie. Cadono i bicchieri, il whiskey bagna il pavimento lasciando nell’aria un forte odore di alcool. Peter ha appena tirato un pugno violento sul tavolino, una botta terribile. Ora ha l’attenzione di tutti. Si massaggia la mano con cui ha scagliato il colpo, gli fa male. Qualche escoriazione, un po’ di sangue. Ma a spaventare gli amici sono i suoi occhi. Sono un quadro dipinto con rabbia, violenza, ferocia, risentimento.
Basta! Non dite una parola di più. Bobby non merita di essere ricordato con commiserazione. Merita un ultimo lungo applauso. E se non siamo capaci di celebrarlo, allora tacciamo. Basta con queste frasi pietose. Avete già dimenticato quello che ci ha regalato? Ci ha fatto sognare, ci ha portato in un mondo che senza di lui non avremmo mai conosciuto. Eravamo tutti in piedi e applaudivamo senza sosta, sembravamo impazziti. Ci scordavamo in che luogo fossimo, non sapevamo neppure più quale fosse il nostro nome. Rafael Limon, Alexis Arguello, Danny Lopez, Cornelius Boza Edwards, Ray Mancini, Ruben Olivares. Gente che sul ring portava soprannomi come Bazooka, Boom Boom, Little Red. Campioni, fuoriclasse. Li ha affrontati tutti. Che battaglie! Una sfida testa a testa fino a quando uno dei due non cedeva. Colpi, ferite, tagli, sangue, sudore e lacrime. E noi lì senza farci neppure una domanda, eccitati da quello che stavamo vedendo. No, Bobby non deve essere salutato con il pianto. Jeff, portane ancora“.
Non chiede un altro bicchiere, questi signori viaggiano a bottiglie intere. C’è da celebrare un eroe, il loro eroe. L’alcool va giù, scioglie la lingua e ingigantisce la malinconia. Le facce del gruppo sono segnate dalle insidie del tempo, dalla cattiveria della vita e da un lavoro che non concede spazi a chi non ha lo spirito del guerriero.
Nasi schiacciati, vecchi tagli mal suturati, sguardo da duri. Ma ancora una volta sono gli occhi a regalare le sensazioni più intense. Trasmettono una scarica elettrica. Quando ti fissano, fanno paura.
Il bancone in legno antico dietro cui il barman guarda e annuisce, ha visto giorni migliori. Le cannelle che mandano giù birra hanno macchie che rovinano l’ottone un tempo brillante. Quel vecchio ragazzo non avrà più di quarant’anni. Guarda il gruppetto di anziani e scuote la testa. Ha paura che prima o poi dovrà chiamare la polizia. Continuano ad alzare il tono della voce, senza però mai sconfinare nell’ira. Vogliono solo urlare la rabbia per Bobby, per l’amico che non c’è più.
Vi ricordate quella notte?”
Bobby aveva il volto da eterno bambino, vestiva in modo sobrio, aveva lo sguardo da attore. Uno di quelli che a Hollywood vanno forte sul grande schermo e fanno innamorare milioni di ragazzine. Sembrava uno scolaretto. Proprio per questo il vecchio Bill Caplan, un giornalista, l’aveva soprannominato Schoolboy.
A lui la boxe era entrata nel sangue. Sembrava non potesse più staccarsene. E a Valerie questo non andava bene. Avevano tre figli e Bobby passava poco tempo con loro. Era diventato campione mondiale dei pesi piuma appena due anni dopo l’esordio nel professionismo, ma con già 23 vittorie e una sconfitta nel record.
Messo via Alfredo Marcano in nove round, non si era fermato più.
Lei lo supplicava di smettere, ma il pugilato sembrava fosse una droga per lui. Non poteva farne a meno. E poi gli servivano i soldi. Ne aveva guadagnati tanti, ma tanti ne aveva anche spesi. Valerie lo aveva implorato, minacciato, ricattato. Niente. Bobby le prometteva che il prossimo match sarebbe stato l’ultimo. Ma poi ce ne era un altro e un altro ancora. L’ultimo era sempre il prossimo e la catena non si chiudeva mai. Neppure un colpo di pistola e la morte della moglie erano riusciti a fermarlo”.
I ricordi attenuano il dolore, l’alcool aiuta la memoria e scioglie la parola.
Luis finora ha solo ascoltato, tocca a lui.
Me la ricordo quella notte. Messo ko Ugalde, Bobby è corso all’angolo. Ha abbracciato il fratello Allen ed è scoppiato in un pianto ridotto. L’ho sentito, l’ho sentito mentre gridava. “È finita! Oh Dio, è finita!” Ero nelle prime file di bordo ring e quelle parole mi sono entrate nella testa. Mi sembrava il verso di un animale ferito. Non era un urlo di liberazione, erano grida di rabbia contro sè stesso. Voleva convincersi che tutto si fosse davvero concluso. Ma sapeva benissimo che quell’incubo lo avrebbe accompagnato per sempre”.
Bobby è morto.
E i suoi amici lo ricordano con grande affetto e qualche rimpianto.
Che pugile fantastico! Un guerriero senza paura!”
Arthur è stato il suo più grande tifoso.
Ha ingaggiato battaglie selvagge con Lopez, Olivares, Limon, Boza Edwards. Ha vinto e perso, ma non ha mai fatto un passo indietro”.
John entra a piedi pari nella conversazione, ma lo fa parlando sottovoce, parlando a sè stesso. Pesa ogni parola. Racconta il dramma di un uomo che vedeva il ring come l’unico posto sicuro al mondo. Quando scendeva quei gradini, la vita diventava un inferno.
E cosa ha avuto in cambio? La dementia e la povertà! Vederlo negli ultimi tempi è stato davvero triste. Faticava a ricordare, faticava addirittura a mangiare, non riusciva neppure a vestirsi da solo. Forse tutto questo è colpa della boxe, di come lui ha voluto interpretarla. Ma la povertà no, non credo sia un’altra colpa da scaricare sul pugilato”.
All’improvviso sembra che un buio fitto e spaventoso si impadronisca dell’intero salone. Si sta scivolando inevitabilmente verso un approdo malinconico.
La vita di un campione che ha elettrizzato spettatori e tecnici sfila lentamente, accompagnata dalle parole di chi lo ha scelto come eroe. Era uno che accorciava la distanza e cominciava a picchiare. E dal momento in cui le mani affondavano nel corpo del rivale, lui non si fermava più. O andava giù o crollava l’altro. E questo alla gente piaceva da impazzire. Due titoli mondiali, nei pesi piuma e nei superpiuma. Cinquantotto vittorie su sessantasei incontri. Un idolo.
Un uomo dannatamente solo.
È salito sul ring per l’ultima volta il 2 giugno del 1988, una vittoria in dieci round su Bobby Jones a Orlando, in Florida. Ma neppure il ritiro dalla boxe l’ha portato via dalle tragedie che ne hanno accompagnato la vita.
Sembrava che una maledizione lo inseguisse dovunque andasse. Evidentemente non riusciva a staccarsi dalle spalle il peso dei suoi peccati”.
La voce di Arthur, rauca e affannata, esce a fatica da quella bocca piccola, labbra sottili e denti che il tabacco ha colorato di un avana amaro.
Tre anni dopo l’uscita di scena, è morto suo figlio. Bobby jr è stato ucciso in una sparatoria tra gang in un garage di Panorama City. A Bobby restava l’affetto degli altri tre figli, della mamma e del patrigno. Ma ormai aveva cominciato la discesa verso l’inferno”.
Aveva provato a lavorare, a scappare dai demoni che riempivano giornate in cui la droga aveva fatto il suo ingresso. Lenta e implacabile si era introdotta in un’esistenza che aveva già pagato il conto al dolore.
Mercoledì, 7 settembre 2016, Bobby è caduto a terra, ha sbattuto la testa sul pavimento. Era al Centro di Assistenza a Hemet, Los Angeles. È morto per le ferite riportate nell’incidente, aveva 64 anni. Ha finito di soffrire. A ricordarlo restano la sua immagine di guerriero senza paura e le lacrime di chi lo ha amato.
Ancora whiskey per tutti.
Arthur, John, Peter e Luis cercavano altre parole per continuare a raccontare le gesta del loro eroe, pensano sia l’unico modo per ritardare il più a lungo possibile il distacco.
Carl tace. Come ha fatto finora.
Lui a Bobby Chacon voleva così bene che qualsiasi parola in più gli farebbe sanguinare l’anima.

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