
Jack Blackburn ha il volto segnato da una profonda cicatrice, parte dall’occhio sinistro e va giù sino a sfiorare le labbra. È il ricordo di una rissa per le strade di Philadelphia, il segno lasciato dal coltello di un rivale. Gran bevitore di birra, spesso si trasforma in una belva scatenata. Come gli è accaduto in una terribile notte del 1909. Con quattro colpi di pistola ha ucciso Alonso Polk, poi sparato alla moglie del polacco e alla sua compagna bianca. Arrestato, giudicato e condannato a 15 anni di prigione. Esce sulla parola dopo quattro. Buon pugile, si è battuto con onore dai medi ai massimi. Da sempre è l’allenatore di Joe Louis, il confidente.
«Come ti senti, Joe?».
«Ho paura, Jack».
«Paura?».
«Sì. Ho paura che stanotte io possa uccidere Schmeling».
L’intera vita concentrata in un solo match.
Joe è il campione, ma non si sentirà tale fino a quando non avrà cancellato l’umiliazione della prima sconfitta. È difficile leggere emozioni nello sguardo di Louis. Quegli occhi incutono timore. Sono sgranati e fissi nel vuoto quando fissano la vittima di turno. L’eroe nero nell’America bianca ha un viso senza espressione, occhi d’assassino. Nessuno conosce i fantasmi che lo tormentano.
Due anni prima Max Schmeling l’ha messo knock out al dodicesimo round. Subito dopo la Germania ha trovato per lui un posto nel campo degli eroi.
I gerarchi nazisti sono in attesa della rivincita.
Joseph Goebbels, ministro della propaganda, alle 3 del mattino è già sveglio. Vuole conoscere in diretta ogni notizia del mondiale. Adolph Hitler si è chiuso a Berchtesgaden. Aspetta fiducioso.
Joe Louis fissa Mike Jacobs, il mitico boss del Madison Square Garden è bloccato dalla paura di perdere.
«Stai tranquillo, non tornerai a vendere limoni e io non tornerò a spingere camion nelle officine della Ford».
Alle 18:45 del giorno in cui affronterà di nuovo Max Schmeling, Joe Louis entra nello spogliatoio. Un quarto d’ora dopo dorme. Riposerà per altre due ore. Nello Yankee Stadium ci sono settantamila persone.
Alle 21:00 Jack Blackburn sveglia Joe.
L’arbitro è Arthur Donovan, lo stesso della prima sfida. C’è una curiosa storia su questo 48enne di Baltimora: ha diretto 19 match di Louis, ma non ha mai parlato in privato con lui fino a quando il campione non l’ha investito, e quasi ucciso, con la sua auto mentre attraversava una strada a New York.
Molti americani avevano tifato Max Schmeling nel primo incontro. Adesso lo scenario è diverso. È il 22 giugno del 1938, il mondo è alle soglie della guerra, la lobby degli ebrei statunitensi ha convinto tutti, il Nazismo è il grande nemico. Gli americani hanno paura. Quando lo sfidante sale sul ring gli spettatori gli lanciano addosso frutta, pacchetti di sigarette e bicchieri di carta.
Suona il gong. Il primo destro di Louis frattura la terza vertebra lombare di Schmeling. Dalla bocca del tedesco esce un grido strozzato, un lamento animalesco. «È il suono più terrificante che abbia mai udito nella mia vita» confesserà Donovan. Il secondo conteggio arriva dopo un sinistro devastante di Louis. Seguono altri due atterramenti prima del knock out.
Sono passati poco più di due minuti dall’inizio del mondiale, ed è già tutto finito. La furia di Joe Louis si è abbattuta su Schmeling. Lo sfidante rappresentava l’ultima barriera tra il campione e la gloria. Joe ha vissuto con l’angoscia nel cuore dopo la prima e, fino a quel momento, unica sconfitta in carriera.
Max è un amico, ma sul ring non esistono amici.
(adattamento dal racconto “Joe Louis”, dal libro “Dodici giganti” di Dario Torromeo, edizioni Libri di Sport, 2004)
