Blandamura lascia: Nonno e la boxe mi hanno mostrato la strada

Emanuele Blandamura, 42 anni il 19 dicembre, ha annunciato il ritiro dal pugilato agonistico. Blandamura (29-4-0, 5 ko) è stato campione europeo dei pesi medi e sfidante al mondiale WBA di Ryota Murata nella stessa categoria. È nato a Udine, ma è romano d’adozione.

Emanuele Lele Blandamura, perché per un pugile è difficile dire basta?

“Nella boxe, a meno che non tu non sia Rocky Marciano o Floyd Mayweather jr, qualche match lo perdi. La sconfitta spinge a farti delle domande, non sempre sono quelle giuste. Sei sicuro che hai perso perché l’altro era più forte? Sei sicuro di esserti preparato bene? Sei sicuro, sei sicuro, sei sicuro? La realtà è che continui a sperare in una risposta che giustifichi la sconfitta. Accettare la realtà è difficile”.

Il timore di lasciare una vita che hai fatto per tanti anni, quanto condiziona il rinvio di una decisione che, vista da fuori, sembra inevitabile?
“In questi due anni di pandemia, avendo avviato il mio nuovo lavoro, questa domanda me la sono fatta più volte. Mi mancherà il mondo che ho frequentato per tanto tempo? Un pugile non ammette mai quanto gli faccia piacere sentirsi al centro dell’attenzione. È un narcisista, tutti i pugili lo sono, compreso io. Chiaramente c’è un narcisismo che resta dentro confini accettabili e un altro che deborda. A questo atteggiamento psicologico si aggiunge, in modo decisamente più importante, la voglia di riscatto, la vita ti ha creato mille problemi e tu vuoi dimostrare di essere più forte di qualsiasi avversità. Narcisismo, voglia di vincere, voglia di dimostrare a sé stessi la capacità di farcela, desiderio di riscatto. Tutto questo ti porta ad allenarti, a soffrire, a combattere. A essere un pugile. Se smetti, pensi di perdere in un solo colpo tutto questo, di recidere il filo che ti lega a un modo di vivere che ti piace. È una tensione emotiva dura da gestire”.

Uno dei momenti chiave della tua carriera è la conquista dell’europeo. Cosa ricordi di quella notte?
“La prima cosa che mi viene in mente è la lunga battaglia sul ring. Ho sconfitto un campione: Matteo Signani, l’attuale detentore del titolo. Sono orgoglioso che la sua carriera, dopo quella sconfitta, sia decollata in modo così importante. Sono orgoglioso di avere fatto quel match, di avere vinto il titolo contro un pugile davvero forte”.

Quali sono state le armi che ti hanno aiutato a vincere quella sfida?
“La grande voglia di esprimermi. La mia testa e il mio corpo cercavano la ricompensa a una vita di sacrifici. E poi un desiderio che mi bruciava dentro, quello di fare un regalo a mio nonno”.

È stato il momento più bello della tua carriera, della tua vita?
“È stata una bella pagina della mia avventura pugilistica. Sono uno abbastanza duro con sé stesso. La gioia è sempre durata poco. Sceso dal ring mi sentivo contento, l’impresa mi aveva reso felice. Ce l’avevo fatta. Ma dopo poche ore già pensavo alla sfida successiva”.

Del mondiale contro Ryota Murata quali ricordi conservi?
“Una forte pressione da parte della stampa intera. Era una situazione a cui non ero abituato, come non sono abituati i pugili italiani di oggi. Non abbiamo adeguata esperienza a quel livello. Sono stato bersagliato dai giornalisti, in maniera positiva intendo. Devo ammettere che me la sono veramente goduta. E poi ricordo i personaggi che ho avuto la fortuna di incrociare. Mi sono sentito, anche se come ultima ruota del carro, parte di quel giro”.
Da cosa ti sei accorto che eri al centro di una grande avventura?
“Guardandomi attorno. Bob Arum, mister Honda che ha organizzato Tyson vs Buster Douglas, Jimmy Lellon jr, uno che ha presentato Tyson e Mayeather, alcune dalle più importanti televisioni che stavano riprendendo il match. Avevo la consapevolezza di essere all’interno di uno show a dieci stelle. Non a cinque, ma a dieci stelle”.

Quando hai tirato il primo pugno da professionista, sognavi questo?
“Non ho fatto il pugile pensando che ne sarei uscito senza avere realizzato qualcosa di importante. Mi sono talmente ispirato a Rocky che a un certo punto ho pensato che davvero Rocky potesse esistere in qualche angolo del mondo. Volevo essere il Rocky italiano. Ho cominciato a 18 anni, ero grande. Speravo di diventare un esempio per tanti ragazzi. Sentivo di potere realizzare qualcosa di buono in questo sport. Puntavo sempre e comunque in alto”.

Il 23 aprile 2007 l’esordio a Piacenza, contro Alex Herceg. Come è andata?
“Mi ricordo che lo colpivo con guanti che erano completamente diversi da quelli che usavo da dilettante. Quando entravano i cazzotti, dicevo: mamma mia, questi fanno proprio male. Ho preso pochi pugni, ma quando centravo con un cazzotto la capoccia di Hercef, mi dicevo: per la miseria, qui faccio disastri”.

Mentre lavoravamo al libro sulla tua vita, hai ripetuto più volte che quello contro Marcos Nader è stato un match molto importante per te. Perché?
“Sapevo di affrontare un ragazzo forte. E poi rappresentavo l’Italia in Europa. Non era la porta principale per il titolo continentale, era una porta un po’ più piccola, ma mi ha fatto sentire importante. Mi dicevo: la maggior parte degli italiani quando va fuori dal nostro Paese perde, girano il mondo e perdono. Io non voglio perdere. Mi sono allenato ripetendo all’infinito queste parole nella mia testa. Il 24 dicembre, a un mese dall’incontro, ho fatto alcune riprese di guanti con Giovanni De Carolis, poi sono tornato a casa e ho mangiato un piattino di pasta e vongole. Quella è stata la mia viglia di Natale. Era un’occasione troppo importante per sciuparla. Sono andato a Stoccarda per vincere, ci sono riuscito”.

Prima hai accennato a nonno Felice, un uomo determinante nella tua vita. Hai elaborato il lutto sino in fondo?
“Non so se ci sono riuscito, ma voglio raccontarti come mi sento. C’è una piccola differenza rispetto agli anni subito dopo la morte. Mi sono reso conto che quando perdi una persona importante, cerchi di fare il massimo per sentirla comunque vicino. Poi ti accorgi che con il passare del tempo la sofferenza non scompare, ma si presenta in modo diverso. Del rapporto con lui ricordo solo le cose belle. Il dolore che mi faceva stare sempre con la sua fotografia in mano, mi spingeva ad andare quattro o cinque volte al giorno a parlare con lui sulla sua tomba, era legato all’angoscia immediata, alla perdita che mi sembrava insopportabile. Quando mi sono accorto, come mi ripeteva nonno, che la vita è bella, ho capito che dovevo viverla non respingendo la felicità, ma accogliendola. Era il modo giusto per ricordarlo. Non sarebbe stato contento se mi fossi comportato in maniera diversa. Lui è sempre con me, ma in modo differente. E quando mi sento dire: Sei proprio uguale a nonno, mi emoziono, mi commuovo. Mi dà ancora una forza incredibile”.

L’11 luglio 2019 hai perso per kot 9 contro Marcus Morrison al Campo Pietrangeli del Foro Italico a Roma. Un match drammatico.
“È stato un segnale forte. Una brutta botta, ma voglio raccontarti un particolare. Prima del combattimento sono entrati nel mio spogliatoio Massimo Barrovecchio e Mauro Betti per fare un controllo del peso, per vedere gli sbalzi nelle ultime 36 ore. Ricordo che ho segnato 75,200 con scarpe da ginnastica, mutande e maglietta. Un normale reintegro sotto i tre chili. Lui ha fatto 81,600 ovvero nove chi di più. Ha vinto. Ho pensato che i ragazzi di oggi sono diversi rispetto a quello che ero io morfologicamente. È stato il primo campanello di un pensiero che mi ha portato a smettere. Poi, è arrivato il ko”.

Come riassumeresti in una frase quello che la boxe ha rappresentato per te?
Che lotta è la vita, come il titolo del nostro libro, ci va vicino. La vita è una battaglia e la boxe insegna come combatterla”.

Cosa diresti a un ragazzo che vuole fare il pugile?
“Proteggi i tuoi sogni, credici sino alla fine, sii sempre pronto a mostrare le tue qualità. Nela boxe servono perseveranza e costanza. La costanza è quella che ti porta ogni giorno ad andare avanti. Allenamento, corsa, dieta, sacrifici. La perseveranza entra in scena quando arrivano i momenti difficili, quando vai giù e devi rialzarti. La puoi riassumere con la frase che Mickey diceva a Rocky Balboa: “Figlio di puttana, non arrenderti mai!” Ecco ragazzo, se vuoi fare il pugile, preparati a lottare per realizzare i tuoi sogni”.

Se avessi avuto più potenza, la tua carriera sarebbe cambiata?
“Sarei diventato campione del mondo”.

Hai mai pensato a come sarebbe stata la tua avventura?
“Ci ho pensato tantissime volte. Mi sono fatto spesso una domanda”.

Quale?
“Ma come cazzo è possibile che non posso fare come Braccio di Ferro, che mangia spinaci e ribalta tutti? Alla fine la risposta è arrivata”.

E quale è questa risposta?
“Perché io sono Emanuele Blandamura e non Braccio di Ferro. La realtà non posso cambiarla. Ma sono soddisfatto di quello che ho fatto con i mezzi che ho avuto a disposizione”.

Cosa c’è nel tuo futuro?
Faccio l’istruttore, metto in atto il mio format One to one. Funzionale più pugilato. Il funzionale è quello che si avvicina di più alla boxe vera e propria. Il tutto serve a tenersi in forma, avere una muscolatura elastica, potente, scattante. E poi cerco di trasferire negli altri l’etica, la passione, la gioia che lo sport mi ha regalato in tutti questi anni”.

Programmi?
‘Voglio fare sempre meglio il mio ruolo di consulente per l’Opes. Porto avanti progetti per il sociale, insegno nelle case famiglia. Poi continuerò la promozione del nostro libo, Che lotta è la vita. E, infine, stiamo definendo le ultime questioni per portare nelle sale il docufilm sulla mia vita. Tanti progetti e una speranza”.

Dei progetti hai parlato, quale è la speranza?
Aspetto, ripeto: non dico mi aspetto, perché nessuno mi deve niente. Se dovessi essere chiamato a fare crescere il movimento del pugilato italiano nell’etica e nei valori che mi ha insegnato, io sono pronto. Non pretendo che qualcuno dica sei un campione, bravo. Prima di me altri hanno fatto le stesse cose, alcuni hanno fatto molto di più. Io aspetto un’eventuale chiamata della Federazione, se lo riterrà necessario. Vorrei essere una risorsa”.

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