
“La mia vita?
Un tenebroso uragano,
solcato qua e là
da splendidi soli”
(Charles Baudeleire)
Così, con quello che a me sembrava il giusto epitaffio per il grande campione, chiudevo un anno fa il racconto di un’esistenza drammatica, piena di sofferenze, addirittura tragedie, ma anche di lampi di gioia. Era il 22 agosto del 2020 e lui ci aveva appena lasciato.
Sandro Mazzinghi se ne è andato via per sempre dopo una vita intensa.
Da bambino aveva attraversato gli anni della guerra, conosciuto le bombe che i caccia del generale Nathan Twining lanciavano su Pontedera.
L’attacco era cominciato a mezzogiorno del 18 gennaio 1944.
Sandro aveva poco più di cinque anni.
Perché, una volta cresciuto, avrebbe dovuto avere paura di un altro uomo sul ring?
Aveva incontrato la fame. Quella vera che gli faceva sognare il pane di notte.
Credete gli servissero altre motivazioni per essere quel guerriero che poi è stato?
Amava il ciclismo, sognava di diventare come Bartali, anche se tifava Coppi. Ma per comprare una bici servivano soldi, la boxe invece i soldi li dava. Prima una bistecca, un pezzo di pane e una frutta. Poi, quando titoli e professionismo erano arrivati a riempire il bicchiere, soldi abbastanza per comprare una casa con un bel vigneto, sulla collinetta di Cascine di Buti.
Faceva il pugilato nello stesso modo in cui affrontava la vita. Sempre a corta distanza, a contatto con il pericolo, facendo del dolore una risorsa piuttosto che interpretarlo come un freno.
Tirava giù una mazzata dopo l’altra, un colpo a cui ne seguiva subito un altro, e poi un altro ancora. Un demolitore che picconava la resistenza dell’avversario sino a quando non lo vedeva cedere.
È stato due volte campione del mondo dei superwelter.
Ha conquistato il titolo contro Ralph Dupas, al Vigorelli di Milano. Lo ha difeso, contro lo stesso Dupas a Sydney.
Campione, personaggio popolare, i primi accenni di benessere economico. Addirittura l’amore. Aveva sposato Vera Maffei, una bella ragazza del quartiere di Santa Croce. Dieci giorni dopo le nozze, mentre tornavano verso casa, la ragazza era morta in un incidente stradale.
Se me lo chiedete adesso, vi rispondo che è impossibile riprendersi da un colpo così. Lo pensava anche Sandro. Si sentiva uno straccio, un uomo finito.
C’era un solo modo per combattere l’apatia, la rabbia, il dolore. Ecco, proprio il dolore. Doveva andarci incontro, come gli aveva insegnato la boxe. Perché solo dopo avere sofferto sino in fondo, avrebbe potuto tentare di riallacciare un legame con la vita. Lentamente, era tornato a combattere. Il fisico sembrava rispondere, la testa no.
E sembrava che la gente godesse ad affondare il coltello, a pungere, a insinuare. Parlavano tutti della stessa cosa. Lo facevano i tifosi, i tecnici, gli uomini di sport. A Sandro sembrava lo facesse anche qualcuno del clan. Ma non urlava, confessava la rabbia al suo diario. Reprimendo le insofferenze, aumentava il senso di disagio.
Alla fine quel mondiale arrivava. Il rivale era Nino Benvenuti, un predestinato. Oro e miglior pugile dei Giochi di Roma 1960. Talentuoso, bello, dalla parola facile, comunicativo.
Si viveva una rivalità che oggi è difficile capire. La boxe, allora, era sport di prima fascia. Ogni parola di Nino finiva su un titolo a nove colonne, ogni replica di Sandro occupava gli stessi spazi. Televisione, cinegiornali, radio. E poi discussioni ai bar, in piazza, nei paesi e nelle città.
L’unico paragone possibile, era quello della rivalità tra Fausto Coppi e Gino Bartali. Erano spiati, inseguiti, intervistati.
Si combatteva allo stadio di San Siro, decine di migliaia di spettatori. Tifo diviso quasi a metà.
Per cinque round la pressione del toscano godeva di una leggera preferenza sui cartellini dei giudici, poi nella sesta ripresa arrivava la magia di Benvenuti. Un montante fantastico, un capolavoro.
E Mazzinghi finiva ko.
Ma la rivalità rimaneva in piedi.
Rivincita a Roma, al Palasport.
I mazzinghiani avevano più ritmo nel cuore. A ogni colpo del loro eroe, sembrava che quelli degli anelli superiori venissero giù come le onde di una mareggiata. Combattevano assieme a lui. E Sandro li accontentava.
Stavolta l’incontro finiva ai punti, c’era estrema incertezza sul risultato. Il popolo della boxe era diviso a metà. I giudici premiavano Nino.
Mazzinghi era condannato a ricominciare.
Cinque europei, altrettante vittorie. Poi, ancora un’occasione mondiale.
La corrida contro Ki Soo Kim. Guarda caso, l’uomo che aveva tolto il mondiale proprio a Nino Benvenuti a Seul, in un match strano, con dei risvolti farseschi.
Sandro sconfiggeva il coreano e tornava campione.
Ecco, questo è l’uomo che ha scritto pagine importanti nella storia della boxe, non solo di quella italiana. Un pugile che ha sempre inseguito una pace che sul ring non ha mai trovato. Su quel quadrato ha incontrato solo trionfi e rarissime sconfitte.
La pace l’aveva in casa. Accanto alla seconda moglie Marisa, donna meravigliosa, ai figli David e Simone che l’hanno chiuso in una bolla d’affetto sino all’ultimo secondo di un’esistenza intensa, da combattente. Allo stesso modo in cui viveva i suoi match. Senza il lusso di potersi concedere una pausa.