
Don King è un promoter,
sa vendere un match,
sa come vendere un evento.
nessuno vende i biglietti come Don King
(Bob Arum)
Eccolo di nuovo.
L’avevo perso di vista qualche anno fa, quando era improvvisamente tornato sotto i riflettori grazie a Bermane Stiverne che aveva conquistato il titolo Wbc dei pesi massimi. Dopo la sconfitta contro Deontay Wilder nel gennaio 2015, l’anziano promoter era rientrato nell’ombra.
Poi si è rituffato nella mischia con Trevor Bryant, che il 29 gennaio scorso è diventato il campione lineare dei massimi per la Wba.
Poca cosa rispetto a un passato in cui riusciva a mettere in piedi 47 titoli mondiali in un solo anno, era il 1994.
Don King, la citazione va sempre fatta così: nome e cognome, ha da tempo ridotto le sue ambizioni. Ha spostato l’ufficio dall’East Side di Manhattan a New York, a Deerfield in Florida. Ha tagliato l’80% del personale che lavorava per lui. In banca dicono gli siano rimasti 30 milioni di dollari. Tanti per tutti di noi, non poi così tanti per uno che ne ha guadagnati 500.

Una faccia di gomma, il sigaro perennemente in bilico sulle labbra, baffi sottili e capelli sparati verso il cielo. Una giacca jeans con mille pin che faticano a trovare posto, coccarde presidenziali, una croce con finti diamanti. Decine di bandierine sempre a portata di mano, per qualsiasi evenienza.
Inconfondibile, unico. Tenta di sopravvivere a se stesso. È una delle poche figure del pugilato universalmente riconoscibili, anche adesso che ha toccato il traguardo dei 90. Li compie oggi, venerdì 20 agosto 2021.
In quasi cinquant’anni di attività ha promosso eventi per tre miliardi di dollari, almeno 500 milioni sono finiti sul suo conto in banca.
“È sempre stato più bravo a promuovere sé stesso che i suoi pugili” dice Steve Cunningham, ex mondiale dei massimi leggeri che ha lavorato otto anni con lui.
Da tempo, molto è scivolato via dalle mani dell’omone dalla criniera al vento.
Ha avuto controversie legali con Ali, Holmes, Witherspoon, Tyson, Norris, Lewis e Byrd.
L’ultimo colpo da ko l’ha subito da Mike Tyson che l’ha citato in giudizio chiedendo 100 milioni di dollari di risarcimento. La causa si è chiusa con un accordo extragiudiziale di 14 milioni. Una brutta botta.

Don King continua a parlare di futuro, di mondiali da portare in giro per il mondo, di nuovi campioni da gestire. La realtà racconta storie diverse.
È difficile fare la comparsa quando sei stato un protagonista assoluto.
È stato un numero 1, da molto tempo ha imboccato il viale del tramonto.
La gente ha negli occhi la sua inconfondibile figura. Gli chiede l’autografo, lo prega di posare per una foto, lo saluta da lontano.
Lui mi ha sempre dato l’idea di un personaggio dei fumetti. Troppo colorato, troppo esuberante, troppo vistoso, con una voce cantilenante con cui mette in piedi improvvisati rap ogni volta che pensa di doverti convincere di una sua tesi.
Donald King, per tutti Don King. Chiamato sempre con il nome intero, come Charlie Brown. Anche se il promoter americano non ha certo il candore del protagonista dei Peanuts di Charles M. Schultz.
Nei comics è entrato da personaggio chiave per la serie I Simpson.

La sua è una storia che merita di essere raccontata.
Era uscito due anni e mezzo prima dal carcere, dove aveva scontato una pena per omicidio colposo, quando ha piazzato il colpo della vita. Aveva tentato la carriera di manager, ma i suoi pugili erano tutti finiti knockout. Poi aveva avuto l’intuizione giusta. Padrone solo della sua dialettica, aveva convinto Muhammad Ali e George Foreman a firmare per la grande sfida. Soltanto dopo avere il contratto in mano aveva trovato i soldi.
Era nato “Rumble in the Jungle”.
I nemici dicevano che i suoi capelli fossero come lui: non rispettavano nessuna legge, neppure quella di gravità. Don King aveva, ovviamente, una spiegazione più spirituale.
«Stavo cercando di prendere sonno quando mi sono sentito come un rombo in testa. Sono corso allo specchio e ho visto i miei capelli dritti come frecce. Anche il barbiere, il giorno dopo, non è riuscito a far niente: ogni volta che provava a tagliarli, sentiva come una scossa. Era il segnale divino: è da quel momento che sono in missione per conto di Dio».
Un po’ come i Blues Brothers.

Ho parlato con Don King.
L’omone che viene da Cleveland ascoltava le domande e poi si lanciava in un rap in cui metteva in fila la comunità nera, celebri scrittori, la grandezza dell’America. Chiudeva ogni verso con una fragorosa risata e una richiesta.
“Salutami Berlusconi”.
Richiesta ovviamente mai esaudita, io Berlusconi l’ho visto solo in televisione.
Rideva quando parlava del suo conto in banca. Rideva quando raccontava la lite con Mike Tyson.
«Troppi Jago attorno a lui. Gli hanno sussurrato all’orecchio mille bugie, hanno messo nella sua testa falsità. E lo hanno rovinato. Mestatori di professione hanno convinto Mike che io ero il suo nemico. Ma basta guardare quello che ha fatto quando era con me e quello che ha fatto dopo, per capire chi fossero i nemici.»
Rideva e il pancione tremava.
Non rideva Mike Tyson quando parlava di lui.
“Ho scoperto che qualcuno che credevo fosse mio padre, mio fratello, uno che aveva il mio stesso sangue si era rivelato il vero Zio Tom, il vero negro, il vero traditore. Ha fatto più male lui ai pugili neri che qualsiasi organizzatore bianco nella storia della boxe. Pensavo fosse il mio fratello nero. È solo un uomo cattivo, un vero uomo cattivo . Non sa amare nessuno”.
Don King è un signore di 190 centimetri per 120 chili, vestito con poco riguardo per l’accoppiamento dei colori e con quei capelli sparati verso il cielo si fa fatica a non notarlo.
A dimenticarsi di lui erano stati però molti dei testimoni chiamati in tribunale nel lontano 1966. King aveva ucciso un tale di nome Sam Garrett, sbattendolo sul marciapiede e rompendogli la testa. Il primo verdetto era stato di omicidio di secondo grado, poi diventato omicidio preterintenzionale.

Tre anni e undici mesi nel penitenziario di Marion, dove ha letto Omero, Shakespeare, Hegel, Socrate. Da ragazzo non poteva permetterselo. Il papà era morto quando lui aveva nove anni, precipitato nell’acciaio fuso. La mamma vendeva torte. Lui, non appena l’età e il fisico glielo avevano permesso, si era messo a riscuotere e pagare le puntate del bingo per il boss locale Tony Panzanello.
Nel 1954 aveva ucciso un uomo che aveva cercato di rapinare l’incasso della lotteria clandestina. Gli era stata riconosciuta la legittima difesa. Poi il secondo omicidio e la condanna.
Era uscito dal limbo grazie a Muhammad Ali.
«Il match tra Ali e Foreman a Kinshasa è stata la cosa più grande che abbia fatto nella mia vita. L’orgoglio del popolo nero. Siamo come il pugilato, usciamo a testa alta dalle guerre che il mondo ci fa. Oggi non ci sono più grandi pesi massimi. Ma è ingiusto paragonare epoche diverse. Una volta la posta viaggiava sui pony, oggi vola con i jet. Io dico: torniamo indietro nel tempo, alle tradizioni. Restituiamo il pugilato ai grandi personaggi. Solo così riconquisteremo il mondo e vedremo un nuovo Ali».
Rideva per il suo ultimo appello. Poi tornava all’interno del clan che lo proteggeva con decisione e amore. Quando uno ha cento pugili sotto contratto, può sempre esserci un’anima candida che pensi di farsi giustizia da solo.
Oggi, sembra, non deve temere più nessuno, se non se stesso.

Ha gestito grandi campioni. Sotto la sua sigla hanno combattuto Ali, Foreman, Holmes, Tyson, Holyfield. Tanto per restare tra i massimi. Leonard, Benitez, Duran, Sanchez, Gomez, Arguello, Chavez, Pryor, Hopkins, Lopez, Trinidad, Zarate, McCallum, Jones jr nelle altre categorie.
Ha organizzato sfide mitiche.
Ali-Foreman a Kinshasa, Ali-Frazier a Manila, Leonard-Duran. È stato il promoter del match che ha avuto il più alto numero di spettatori nella storia: 132.000 paganti per Chavez-Haugen allo stadio di Città del Messico. È stato sicuramente per molti anni il più “chiacchierato” uomo di pugilato. Di lui hanno detto e scritto le cose peggiori.
Don King si è sempre difeso con una frase che è diventata il suo motto.
“Io sono la dimostrazione vivente del sogno americano. Io sono l’esaltazione di questa grande nazione. Tutto è possibile in America, solo in America”.

Non è sulla stessa lunghezza Larry Holmes, uno dei più grandi pesi massimi della storia.
“Don King sembra nero, vive da bianco, pensa verde”.
Il riferimento al dio dollaro non è del tutto casuale.
Bob Arum, il grande nemico, l’appuntamento con i 90 anni lo avrà a dicembre, ma è ancora in piena attività anche se recita da co-protagonista. Al Haymon, Eddie Hearn, Oscar De La Hoya sono i nuovi padroni del pugilato mondiale. Don King è scivolato nell’ombra imboccando il viale del tramonto, quella risata di pancia che chiudeva ogni discorso oggi è solo l’ultimo bugia di un clown triste.
Salve, mi piace molto questo articolo! Vorrei pero’ segnalare che la stella ebraica ha sei punte mentre quella a cinque punte e’ quella di satana.
Grazie per la segnalazione. Altri mi hanno detto che la stella a cinque punte potrebbe essere un richiamo alla bandiera americana. Sicuramente non è la stella ebraica, che è a sei punte. In ogni caso, adesso l’errore è stato corretto.