Il vero cognome di Dundee era Miranda. Angelo Miranda, proprio come il papà che faceva il pastore a Rogiana Gravina in provincia di Cosenza. Calabrese anche la mamma Filomena Jannelli. Il “nome d’arte” l’aveva ereditato dal fratello Joe che quando saliva sul ring si faceva chiamare Johnny Dundee.
L’uomo di cui si fidava Ali era dunque un bianco, un oriundo calabrese. Era nato a Philadelphia e aveva guidato al titolo Carmen Basilio.
Angelo Dundee era figlio di emigranti che parlavano meglio il dialetto che l’inglese. Il papà veniva dalla Calabria e in America asfaltava le strade, la mamma era una casalinga. Angelo era nato il 30 agosto del ’21 a South Philadelphia, al numero 829 di Morris Street. Una zona piena di italiani. Sette figli, più due morti nell’epidemia di diarrea che nel 1917 aveva fatto un’autentica strage. In casa Miranda la tradizione era quella di casa nostra, scandita dallo stesso menù per tutte le settimane dell’anno.
Lunedì: carne e patate; martedì: spaghetti con ragù di polpette; mercoledì: piselli, riso, verdure; giovedì: pasta; venerdì: pesce; sabato: sandwich; domenica: pranzo pieno con tre portate, più la frutta.
E per bere, in tavola c’era il vino che il papà produceva in proprio. Ogni pasto era introdotto dallo stesso rito. Angelo sr diceva ai ragazzi che dovevano portare rispetto alla fatica della mamma. Dovevano mangiare senza fiatare quello che lei aveva cucinato.
“Mange, mange.”
Erano le parole con cui si chiudeva sempre il piccolo sermone.
Il manager di Clay aveva dunque origini italiane. Il più grande amico era un fotografo cristiano, Howard Bingham. Il confidente, giullare, motivatore era un ebreo integrazionista, Bundini Brown. Un clan perfetto.
Angelo Dundee diceva che le stelle erano i pugili, non gli allenatori. Ma poi ammetteva che il suo era un mestiere difficile.
“A volte devi essere un buon dottore, altre un bravo ingegnere, altre ancora conoscere la psicologia, spesso devi diventare anche attore. E, ovviamente, devi conoscere la boxe. Ci sono più modi di interpretare questo lavoro di quelli che puoi trovare negli inganni del cubo di Rubik.”
E lui era un grande allenatore. È morto il primo febbraio del 2012 a Tampa, aveva novant’anni. Si è portato dietro la magia dei suoi segreti. Era stato all’angolo di Cassius Clay. Era stato l’unico bianco nel gruppo dei Musulmani Neri quando il campione era diventato Muhammad Ali e aveva affidato cuore e finanze ai rappresentanti del suo nuovo credo.
Aveva cominciato con Carmen Basilio, poi ne aveva avuti così tanti, almeno quindici, da perdere il conto. Willie Pastrano, Jimmy Ellis, Luis Rodriguez, George Foreman nella riconquista del titolo, Josè Napoles.
Il maestro/manager ricordava a tutti come Mantequilla, assieme ad altri due pugili cubani, Luis Rodriguez e Ultimino Sugar Ramos, gli avesse insegnato lo spanglish. Un misto di inglese e spagnolo assai utile per capire e farsi capire in un mondo che mischiava l’America del Nord e quella Latina con estrema facilità.
E poi, primo tra tanti, aveva gestito un altro grande: Sugar Ray Leonard. Li aveva messi tutti assieme nel suo biglietto da visita per non dimenticarli mai.
Assieme a un altro fratello, Chris, aveva creato la “5th St. Gym”: la palestra all’angolo tra Washington Avenue e la Fifth Street a Miami Beach in Florida. Il ginnasio dove si preparavano Luis Rodriguez e Bennie Paret. Dove potevi vedere gli allenamenti di Muhammad Ali.
Aveva cominciato, agli inizi degli anni Cinquanta, allo Stillman’s Gym.
Louis Ingber, meglio noto come Lou Stillman, era stato un leggendario insegnante di pugilato che aveva aperto una palestra a New York. Nel 1919 i miliardari Alpheus Geer e Hiram Mallison gli avevano chiesto di amministrare lo Stillman’s Gym sull’Ottava Avenue tra la 54esima e la 55esima strada. I pugili che la frequentavano pensavano che il cognome del titolare fosse Stillman e lui glielo aveva lasciato credere.
Ibner-Stillman aveva uno strano modo di gestire il locale. Non era certo il posto più salutare per chi facesse sport, per chi volesse respirare aria pura. Si poteva fumare e le finestre erano sempre chiuse, mentre i pavimenti venivano lavati di rado. Lui teneva una pistola nella cintura e aveva messo due guardie alla porta perchè si assicurassero che tutti pagassero i 25 centesimi del biglietto per vedere i pugili in allenamento.
Non faceva discriminazioni di razza, nè di sesso. Da lui si erano preparati Jack Dempsey, Georges Carpentier, Primo Carnera, Fred Apostoli, Joe Louis e Rocky Marciano. Sapeva cosa fosse indispensabile per un pugile e glielo faceva trovare. Sangue, sudore e lacrime. Era un buon maestro. Conosceva la strada per scalare le classifiche.
In quella palestra Angelo Dundee aveva “rubato” i primi segreti a Ray Arcel, Charley Godman, Chickie Ferrara.
Diceva Ferdie Pacheco, il medico dei campioni: “All’angolo Angelo era un misto di Godzilla e Superman.”
“Qualsiasi cosa ti dicesse in quel minuto, tu dovevi ascoltarlo. Dovevi credergli. Era il migliore del mondo”, ricordava Muhammad Ali.
E di capolavori all’angolo nei aveva fatti tanti. Saggezza, professionalità, capacità. Ma anche piccoli trucchi diventati famosi. Come quando, nel giugno del 1963, aveva allargato un piccolo buco nel guantone di Ali appena messo al tappeto da Henry Cooper. Per cambiare quel guantone, Angelo si era preso tutto il tempo possibile, sforando il minuto di intervallo, anche se non di molto come vorrebbe la leggenda. Il tempo necessario al campione per recuperare energie e vincere poi per ko al quinto round.
E chi potrà mai dimenticare “Thrilla in Manila”?
Ali era stremato, finito. Guardava Angelo Dundee implorando un cenno, qualcosa che lo aiutasse ad arrendersi. Il vecchio manager italo-americano aveva fissato il campione negli occhi e con un filo di voce gli aveva sussurrato nell’orecchio: «Hai vinto, lui non ne ha più».
Eddie Futch aveva guardato il volto devastato del suo pugile e aveva fatto un cenno con la mano all’arbitro. Era finita. Joe Frazier abbandonava. Ali era ancora campione. Una stilla di energia in più e un’intuizione geniale del maestro avevano salvato titolo e leggenda.
A poche ore dal mitico match con Foreman a Kinshasa, Dundee aveva visto le corde del ring molli. La pioggia le aveva allentate. Con la lama di un rasoio aveva tagliato e riparato quelle corde, le aveva rese più elastiche, ma anche più lente. L’aiuto ideale per Muhammad Ali e la sua magica tattica. Rope-a-dope, il titolo sarebbe tornato nelle sue mani.
Angelo Dundee aveva curato Cassius Clay nella seconda sfida con Sonny Liston, quando gli occhi del campione improvvisamente avevano preso a bruciare e la vista sembrava stesse per scomparire. Lo aveva ricacciato al centro del ring, non gli avrebbe mai permesso di regalare il titolo in quella maniera.
Aveva urlato «Fuck you» a Drew Bundini Brown che implorava un altro round per Ali. «Fottiti, è finita» aveva urlato il maestro/manager all’uomo che più di tutti era stato vicino al campione. E il massacro aveva finalmente avuto termine. Seduto sullo sgabello, all’altro angolo del ring, all’interno del Caesars Palace di Las Vegas, Larry Holmes piangeva. Per dieci riprese gli era sembrato di picchiare suo padre. L’uomo che gli stava davanti era un fantasma. Bundini non strillava più con quella sua voce melodiosa che veniva dall’anima. Angelo Dundee aveva posto fine allo scempio.
Era stato all’angolo di Sugar Ray Leonard per tutta la carriera. Anche nella notte della vittoriosa sfida con Marvin Hagler. Sceso dal ring Sugar Ray aveva ufficializzato il ritiro. Mentiva. Sarebbe tornato a combattere anche dopo il quarto annuncio. Ma al suo fianco non avrebbe più avuto Angelo Dundee. Mike Trainer lo aveva fatto fuori, aveva tolto di mezzo l’uomo che aveva costruito un capolavoro tattico nella sfida più dura di Leonard.
Questo e molto altro ancora è stato Angelo Dundee, un uomo che non ha mai dimenticato le sue origini italiane. Uno che, allontanatosi dal ring aveva continuato ad insegnare boxe. Russell Crowe, protagonista di “Cinderella Man”, era stato uno dei tanti attori che gli avevano chiesto aiuto.
Un grande. Il più grande, dice Muhammad Ali che se ne intende.
Non fatico a credergli.
Angelo Dundee era nato il 30 agosto del 1921, cento anni fa. Se ne è andato via per sempre il primo febbraio del 2012.
Non credo verrà al mondo un altro come lui.
Era originario del mio paese’Roggiano Gravina’ in provincia di Cosenza. Orgogliosa di essere cresciuta nello stesso rione dei suoi familiari. Roggiano,Giovedì 2 Marzo, lo onorerà; intitolando a suo nome il Palazzetto dello Sport