Era acqua ghiacciata quella che veniva giù dal cielo.
Il vento soffiava forte e toglieva il respiro.
Il capannone del circo era montato su un terreno abbandonato. Il fango rendeva difficile ogni piccolo passo. Uomini e donne arrivavano ai confini di quello spazio umido e sporco in gruppi di tre o quattro. Procedevano cercando aiuto in una passerella di legno. Altre tavole segnavano il cammino verso la meta, indicata da una luce che usciva da una piccola porta in fondo alla strada. Grosse frecce all’uscita della metropolitana suggerivano la via per raggiungere il luogo dell’evento. I pugili erano rintanati in due camper che comunicavano con il tendone attraverso gallerie all’aperto.
Erano venuti in tanti per vedere un uomo di trentatrè anni salire sul ring portandosi dietro dieci centimetri e cinque chili in meno del suo rivale.
In molti amavano Josè Napoles.
Lo chiamavano Mantequilla perché i colpi sembrava scivolassero sul suo corpo. Sgusciava via, sempre e comunque, come un panino di burro. Schivate millimetriche che rivelavano la grandezza del fuoriclasse. Abile sul piano tecnico, ma dotato anche di pugno pesante. Era stato campione del mondo per sei anni, tranne una breve parentesi di pochi mesi. Carlos Ortiz si era sempre rifiutato di affrontarlo. Aveva battuto Curtis Cokes, Emile Griffith, Ernie Lopez, Billy Backus, Horacio Agustin Saldano. Peccato fosse un welter naturale, forse il migliore dopo Sugar Ray Robinson.
Il titolo in palio in quella fredda notte parigina era quello dei medi.
Un giovane francese con il viso d’angelo impartiva ordini con voce metallica. Curava gli ospiti di bordo ring, voleva che lì tutto fosse perfetto. Il resto del pubblico poteva anche maledire il momento in cui aveva deciso di comprare il biglietto. Alain Delon indossava un cappotto di cammello che gli stava a pennello, i capelli erano tenuti assieme da un leggero strato di gel.
Josè Napoles si era allenato nella palestra Jovert, nella zona nord ovest di Parigi. Un locale pieno di ragazzi che ogni pomeriggio, prima di cominciare il lavoro, alzavano lo sguardo verso la foto di Marcel Cerdan: l’algerino di Parigi, il campione del mondo dei pesi medi, l’amante di Edith Piaf, l’idolo della Francia intera. Il profumo delle Gauloises riempiva l’aria. Un odore forte, acre che sembrava l’ideale compagnia per quegli uomini che avevano scelto un mestiere così difficile.
Napoles era nato a Cuba, aveva imparato a fare a pugni per le strade dell’Avana. Lavorava come lustrascarpe e andava in palestra. Buon dilettante, aveva cominciato l’attività sotto la guida di tre zii. Poi era passato professionista. Nel ‘61 Fidel aveva vietato la boxe “dei capitalisti” e lui era scappato in Messico portandosi dietro un record di 17 vittorie e una sconfitta. Il maestro che lo seguiva si chiamava Alfred Cruz, detto Kid Rapidez. Era esperto di Santeria, la stregoneria cubana. A pochi minuti dal match potevi tranquillamente trovarlo sotto la doccia che sgozzava un pollo, o potevi scoprirlo appena dopo il peso mentre bruciava candele votive in albergo.
Napoles aveva affrontato i migliori.
Saliva sul ring e boxava tenendo le mani basse, schivando i colpi con un leggero movimento della testa e del tronco. Per cinque anni era stato il numero 1 dei pesi leggeri, ma non era riuscito ad avere l’occasione mondiale.
Fisico compatto, faccia tonda, incattivita da un paio di baffi da bandito, Jose Angel Napoles amava le donne in un modo selvaggio. Poco sentimento e tanto sesso.
“È arrivato il falco che mangerà le pollastrelle” era il suo grido di battaglia.
Adorava fare l’alba e cercare il grande colpo scommettendo su cavalli cha i bookmaker offrivano a 20 contro 1. In un solo pomeriggio aveva perso 30.000 dollari, una fortuna. Gli piaceva bere. Eric Thomas, detto “Baby Cassius” era uno dei suoi sparring più assidui. Raccontava che più di una volta aveva sentito l’odore dell’alcool uscire dalla bocca del campione durante le sedute di allenamento. Aveva aggiunto che quando si accorgeva di essere stato scoperto, Napoles diventava cattivo.
“Un pomeriggio mi ha fatto davvero male. Ero lì, tutto quello che volevo era guadagnare qualche dollaro per passare un buon Natale. Ma lui ha cercato di uccidermi a forza di pugni. Colpiva, colpiva, colpiva. Sembrava non ne avesse mai abbastanza”.
Il circo era pieno. Un gruppo di messicani ritmava senza pause il canto di guerra.
“Me-hi-co, rah, rah, rah; Me-hi-co, rah, rah, rah “.
Gli argentini, più numerosi, urlavano ingiurie sanguinose e minacce di distruzione. Il fumo delle sigarette avvolgeva le prime file di bordo ring.
Fuori la pioggia ghiacciata continuava a venire giù come se volesse maledire quel giovane attore che aveva osato mettere in piedi la grande sfida. Accanto a lui si muoveva Rodolfo Sabbatini, il promoter romano che gestiva Monzon in Europa.
Gli spettatori applaudivano, si scaldavano le mani in attesa che quei due cominciassero a darsele di santa ragione. Perché era questo che volevano. Uno spettacolo di lotta senza risparmio. Sapevano che l’avrebbero avuto. Monzon non aveva mai deluso su questo piano e Napoles aveva fatto chiaramente capire che sarebbe andato a caccia del pugno pesante. Volevano lacrime e sangue, sarebbero stati accontentati.
Pioggia e freddo fuori, caldo dentro.
Carlos Monzon e Josè Napoles salivano sul ring, era la sera del 9 febbraio del ‘74.
Durava meno di tre round la speranza del messicano di Cuba. Metteva a segno un destro che toccava la mascella di Monzon e la storia finiva lì, anche se Josè continuava ad avanzare, saltellando, come se stesse ballando sulle punte. Andava a cercare il campione, ma era una guerra impari. C’era troppa differenza fisica, almeno due categorie in più in favore dell’argentino. Il destro di Carlos era lungo, sembrava non dovesse mai avere fine. Veniva giù come quelle enormi palle di ferro che abbattono i palazzi e provocava danni pesanti. Nella sesta ripresa l’incontro diventava una mattanza, un gancio sinistro del campione feriva il rivale. Il sangue riempiva la faccia di Napoles, piccoli rivoli rossi disegnavano macabre linee su un volto sempre più cupo.
Nell’intervallo, la resa.
Josè Napoles: “Angelo no veo, no veo nada.”
Dundee: “Finiamola qui.”
Monzon rientrava nello spogliatoio, si faceva velocemente la doccia, si rivestiva e tornava in albergo senza fare il controllo antidoping.
“Non faccio pipì davanti a dieci persone”.
Due mesi dopo, il Wbc metteva assieme questo episodio e il rifiuto di difendere la corona contro lo sfidante ufficiale Rodrigo Valdes entro novanta giorni e toglieva all’argentino la sua parte di titolo.
Per la corona vacante Rodrigo Valdes batteva Benny Briscoe.
Carlos era furibondo.
“Mi ritiro” annunciava ai giornalisti.
Rodolfo Sabbatini sorrideva.
“Tornerà sul ring non appena conoscerà il nome del prossimo avversario e l’entità della borsa”.
Otto mesi dopo avere distrutto Josè Napoles e avere annunciato il ritiro, Carlos Monzon difendeva per la decima volta il titolo. A Buenos Aires, Tony Mundine finiva knock out in sette round.
La parola fine non era ancora stata scritta.
Non lo era neppure per Mantequilla.
Josè Napoles tornava nei welter, sei mesi dopo difendeva il titolo contro Hedgemon Lewis. Vinceva altre tre volte, poi veniva sconfitto da John Stracey e si ritirava.
Era il 6 dicembre 1975.
Chiudeva con un record di diciotto mondiali disputati nei welter: sedici vittorie e due battute d’arresto. Niente male…
Il 16 agosto di due anni fa Josè lasciava per sempre questa terra. Aveva 79 anni, con il suo talento ha scritto la storia della boxe.
(dal libro “Monzon, il professionista della violenza” di Riccardo Romani e Dario Torromeo. Edizioni Absolutely Free)