
Il 5 giugno saliranno sul ring Evander Holyfield (58 anni) e Kevin McBride (48 a maggio). Entrambi hanno disputato l’ultimo match dieci anni fa. Non sarà un vero combattimento. Si scambieranno colpi in esibizione per sei round al limite dei pesi massimi. L’evento si terrà allo Stadio Marlins di Miami in Florida. Sarà organizzato da Triller, la stessa società dello show di Iron Mike, e sarà trasmesso in pay per view. Sarà inserito nel programma che avrà come clou Teofimo Lopez vs George Kambosos (mondiale Wba, Ibf, Wbo dei leggeri).
Kevin McBride non è stato certo un fenomeno. Viene da Clones, in Irlanda. La stessa città di Barry McGuigan. È stato un discreto dilettante, ha partecipato all’Olimpiade di Barcellona ’92. È andato in Spagna pieno di speranze, è stato eliminato al primo turno. Ma ha conosciuto Michael Jordan e Carl Lewis, cosa che l’ha ripagato di qualsiasi sacrificio. L’11 giugno del 2005, il giorno del combattimento con Iron Mike, aveva un record di 32-4-1. Le cose migliori le aveva fatte in allenamento. Sedute di sparring con Ray Mercer, Riddick Bowe e Johnny Ruiz».
Era stato fin troppo facile convincerlo ad affrontare Tyson. Era bastata una telefonata. Dovrebbe essere andata più o meno così.
«Kevin ci sarebbe questo match contro Mike Tyson, te la senti?»
Certo. Era il mio idolo da ragazzo. Quando lui è diventato campione del mondo io non avevo ancora fatto il primo match da dilettante.
«Bene, allora è fatta».
Un momento. Qual è la borsa?
«Centocinquantamila dollari».
Non azzardatevi a fare un’altra telefonata, arrivo!.
Iron Mike veniva da due sconfitte per ko negli ultimi tre match. Non era più quello di una volta. E poi McBride aveva deciso di giocarsi al meglio quella possibilità. Si era allenato con Goody Petronelli, il maestro di Marvin Hagler. Si era anche affidato a un ipnotizzatore che gli aveva dato alcune semplici indicazioni. Una soprattutto. Ogni volta che ti colpisce, tu lo guardi e sorridi.
«Tanto valeva dirgli: ubriacati e sali sul ring. Si fa presto a parlare».
Kevin si era messo davanti al letto della stanza al campo d’allenamento, una foto gigante di Tyson. Un poster che lo ritraeva di spalle. Voleva che fosse l’ultima immagine che vedeva la sera prima di addormentarsi, la prima all’alba quando si svegliava. Preparazione dura, senza infortuni, fatta con totale dedizione. I soldi per il campus e gli sparring glieli aveva dati un amico.
Era il proprietario di un bar e quei dollari erano stati un vero e proprio sacrificio. Ma anche un investimento per una giusta causa.
Centocinquantamila dollari per McBride.
Cinque milioni e mezzo per Tyson. Ne avrebbe però presi solo 250.000. Gli altri sarebbero spariti per le tasse, i debiti nei confronti dell’ex moglie Monica Turner e creditori vari.
McBride, la sua borsa l’aveva intascata per intero. Il giorno prima dell’incontro aveva convocato l’avvocato e gli aveva detto che se i suoi soldi non fossero stati in banca prima del match, lui non sarebbe salito sul ring.
Era grosso, quasi due metri per 123 chili al momento del match. Oggi dicono sia attorno ai 135. Un omone, con un buon destro.
Tyson era lento, non portava le serie come una volta. E non aveva fiato per andare sino al termine delle dieci riprese previste. Al sesto round, la svolta. McBride era andato bene fino a quel punto, ma due dei tre giudici avevano Mike in vantaggio di due punti. Tyson era senza energie, aveva capito che avrebbe dovuto risolvere la vicenda in quei tre minuti. Non ce l’avrebbe fatta ad andare avanti. Così aveva tentato di rompere un braccio all’irlandese, poi gli aveva dato una testata provocandogli uno spacco all’arcata sopracciliare sinistra e l’arbitro Joe Cortez gli aveva inflitto due punti di penalizzazione.
Il giorno dopo il match, McBride avrebbe detto che Mike gli aveva anche dato un morso al capezzolo. “Per fortuna aveva il paradenti” aveva aggiunto.
Nel finale di round un gancio sinistro di Kevin, che poi aveva scaricato tutto il suo peso sul rivale, aveva mandato al tappeto Tyson. Cortez aveva detto che si era trattato di una spinta. Il gong aveva chiuso la discussione. Quando però il gong era suonato di nuovo, Jeff Fenech che comandava l’angolo dell’ex campione del mondo, aveva detto all’arbitro: “Basta. Finisce qui”.
Finiva lì, quindici anni fa, anche la storia pugilistica di Iron Mike Tyson, il più giovane campione del mondo dei pesi massimi.
Per McBride, grande popolarità. Titoloni sui giornali, interviste alla televisione. Poi tre match: due sconfitte per ko e una vittoria. Stop per tre anni, rientro sul ring. Un successo e quattro sconfitte. Un devastante ko al quarto round il 29 luglio del 2011 contro Mariusz Wach. Steso sul tappeto per alcuni minuti, portato via in barella. Stop definitivo. Pugilisticamente non ha raccolto quello che sperava dopo il clamoroso successo su uno dei più popolari pugili di sempre.
Gli è andata meglio nella vita. Vive a Brockton, la città di Rocky Marciano, assieme alla moglie Danielle Curran. Hanno due figlie: Grainne, nata l’anno della vittoria su Mike, e Caoimhin, venuta al mondo tre anni dopo».
La vittoria contro Mike Tyson è il più bel ricordo della avventura nel pugilato.
Ma di quella sera Kevin dice che il momento più bello è arrivato a fine match, quando gli si è avvicinato Muhammad Ali. A fatica ha mimato una serie di colpi, poi gli ha sussurrato: Tu sei l’ultimo, io sono sempre Il Più Grande.
Kevin quando lo racconta aggiunge: Fantastico, i soldi non possono comprare tutto.
Un bell’aneddoto, dubito però sia vero. Ali nel 2005 non era in grado di tirare una serie e neppure di parlare senza fatica. Ma come diceva un mio collega: Non rovinare mai una bella storia con la verità...
(sintesi de Il giustiziere di Tyson, capitolo del libro SOLO COME UN PUGILE SUL RING di Dario Torromeo, Absolutely Free Libri, 350 pagine, 15 euro)
