
All’alba del 23 marzo di sette anni fa, se ne andava via per sempre Carmelo Bossi. Aveva vinto l’argento olimpico nei superwelter all’Olimpiade di Roma 1960 ed era stato campione del mondo Wbc-Wba tra i professionisti nella stessa categoria. Aveva 74 anni. Lasciava le due figlie, Carla e Alessandra, avute dalla compagna di una vita: Anna Pocaterra, scomparsa nell’agosto del 2013.

Quando aveva visto quella scatola di caramelle, Anna non aveva pensato neppure un istante di resistere alla tentazione e l’aveva aperta. Poi, non aveva potuto fare a meno di sorridere.
Sollevato il coperchio con tutti quei ghirigori e tanti fiori pieni di colori, si era trovata davanti il tesoro di Carmelo. Lì dentro c’era la storia di una vita. Medaglie che testimoniavano le vittorie, ma anche i sacrifici, le sofferenze e le battaglie, di un uomo a cui nessuno aveva mai regalato niente.
Anna aveva fatto ruotare le medaglie tenendole tra l’indice e il pollice della mano destra, delicatamente, quasi si sentisse in imbarazzo davanti alle emozioni che quella scatola nascondeva. Poi, aveva tirato su la Croce di Cavaliere. L’aveva ammirata, si era commossa, e il sorriso era diventato ancora più grande. Il suo uomo era davvero un tipo particolare.
Quei trofei non aveva mai voluto esporli, non li mostrava con orgoglio a chiunque passasse per casa. Preferiva tenerli dentro una scatola di caramelle, quasi si vergognasse di rendere pubbliche le sue conquiste. Eppure a quella scatola teneva in maniera particolare. Era un oggetto che lo aveva seguito in giro per l’Italia, segno che a quei ricordi era molto legato. L’aveva portata con sè anche quando si era trasferito da Milano a Ferrara, nella prima metà degli anni Sessanta.
“Doveva aver fatto qualcosa di storto e se ne era andato in esilio” raccontava Anna.
“E così si era portato dietro le sue cose”.
O almeno, quelle a cui teneva di più.
Anna Pocaterra guardava poco la boxe, ma in quei pomeriggi di fine estate 1960 si sedeva spesso davanti alla televisione. Era un modo per stare vicina al suo papà, Gino, che amava il pugilato e a forza di vederlo combattere era diventato un tifoso proprio di Carmelo Bossi. Dopo, quando Anna e Carmelo si sarebbero sposati, nel 1966 nell’Abbazia di Pomposa, una splendida costruzione del IX secolo a Codigoro, ci avrebbero riso su tutti assieme.
Lei, che di boxe capiva davvero poco, era rimasta colpita da quel biondino (lo chiamerà sempre così, anche se in realtà Carmelo aveva i capelli castati) dal volto tanto pallido da suscitare tenerezza.
Anna lavorava in un’agenzia di assicurazioni a Ferrara e aveva conosciuto Carmelo di persona qualche anno dopo, quando Bossi sarebbe andato lì ad allenarsi con Carlo Duran nella palestra di Nando Strozzi.
Carlo era sposato con Augusta Becchetti. Ed Augusta e sua sorella Thea erano amiche di Anna. Il cerchio si chiudeva nel migliore dei modi. Quello tra Carmelo ed Anna sarebbe stato un amore forte, capace di resistere anche alle cattiverie della vita.
Quei match ai Giochi di Roma sarebbero rimasti tra i pochi a cui Anna avrebbe assistito, anche se solo davanti a un televisore.
Bossi non voleva che lei fosse a bordo ring quando lui era lì sopra a combattere. E così quando, nel luglio del 1970, lui aveva affrontato Fred Little per il titolo mondiale professionisti, lei era rimasta a casa. Incinta di otto mesi della primogenita. Quell’incontro lo aveva visto sul letto, con amiche e parenti che cercavano continuamente di calmarla.

Carmelo il pugilato l’aveva scoperto quando era già ragazzo. Aveva 16 anni quando lo zio Carmelo, come lui, e il fratello Ernesto lo avevano portato nella Palestra di Giuseppe Combi a Milano. Solo dopo si sarebbe trasferito nella Sala Olimpia per affidarsi ai consigli del maestro Luigi Vassena.
Era gracile, aveva le spalle strette. Il pugilato avrebbe forse potuto far qualcosa per rimetterlo in sesto sul piano fisico.
La famiglia Bossi viveva in centro, in zona Santa Barbara, dietro al Tribunale. Carlo, il papà, aveva un banco di frutta al mercato. Maria, la mamma, era impiegata delle Poste. Avevano tre figli: Francesco, Ernesto e Carmelo che era quello di mezzo. Un tipo ribelle. Uno che faticava a non dire quelllo che pensava. E con quella voce dal tono così particolare, quasi uno strumento musicale con note basse e gracchianti, non si lasciava scappare l’occasione per ribattere o per colpire. A parole, come con i pugni.
E non aveva paura di nessuno. Per difendere un amico, il fotografo Vito Liverani con cui poi avrebbe lavorato anche come produttore vendendo le foto ai settimanali, si era addirittura messo contro ad un ragazzo della Milano bene.
Cosa era successo?
“Come sia andata me lo ha raccontato lo stesso Liverani.
Stavo facendo delle foto di allenamento sul ring del Vigorelli, quando inavvertitamente avevo urtato il signorino.
-Ehi, pirla. Guarda dove metti i piedi, sei davvero un pirla.
“Chiedi scusa al mio amico. Lui qui sta lavorando, tu ti stai solo divertendo” (il giovanotto non era certo un pugile e si stava muovendo sul ring solo per farsi vedere da qualche ragazza che era in platea).
-Io non chiedo scusa a nessuno
“Te lo ripeto per l’ultima volta. Tu l’hai offeso, chiedigli scusa.”
-Altrimenti, cosa fai?
“Ti sparo un cazzotto in bocca.”
-Falla finita anche tu
Era stato a quel punto che il destro di Bossi era partito. L’altro era crollato al tappeto. Svenuto. Quando si era rialzato, era andato a denunciare Carmelo”.

Per un breve periodo Bossi aveva aiutato il papà, poi aveva provato a fare il barista, infine aveva lavorato come postino a Porta Vittoria.
Era nato quando la Seconda Guerra Mondiale era appena cominciata. Un mese prima la Polonia era stata invasa dalle truppe tedesche. Una tragedia che si sarebbe chiusa solo nel 1945, dopo aver lasciato sul campo sessanta milioni di cadaveri.

L’infanzia di Carmelo, come quella di tutti i bambini della sua età, non era stata facile. Aveva attraversato i primi anni di vita in un’atmosfera piena di paure. Ma alla fine ne era uscito fuori. E neppure troppo male.
Era un tipo spiritoso, sapeva essere auto ironico, non aveva paura di scherzare su se stesso.
Balbettava, e questo era (forse) un retaggio degli spaventi patiti nei primi anni di vita, ma non aveva mai fatto un dramma del suo problema. Ci giocava su.
Gli piaceva ballare, divertirsi. Con Vito Liverani se ne andava in un bar all’angolo di Piazza Benedetto Marcello. Lì c’era il loro “grup de bagai”, il gruppo di amici. Con loro amava tirar tardi.
Sul ring era intelligente, aveva istinto pugilistico, sembrava essere nato per fare questo sport. Sprecava poco, era dannatamente concreto. Lo chiamavano il ragioniere. Bravo nel lavoro al corpo, anche da dilettante aveva la tecnica di un professionista.
Il primo successo importante era arrivato nel 1958, quando aveva conquistato il titolo di campione italiano nella categoria dei pesi welter a Terni. Il debutto in Nazionale era giunto poco dopo, a Ferrara. In quella città che avrebbe segnato in maniera importante la sua vita.
Anna, che lo aveva visto in tv durante i Giochi di Romane era rimasta così colpita da ricordarsi subito di lui appena le era stato presentato dalle amiche.
Agli Europei di Lucerna, nel 1959, si era fermato soltanto in finale.
Da dilettante combatteva spesso al Teatro Principe, uno dei luoghi sacri del pugilato milanese anni Sessanta. In quella sala, non lontana da Porta Romana, proprio nella stagione olimpica, Luchino Visconti aveva girato le scene pugilistiche di uno dei suoi capolavori: “Rocco e i suoi fratelli” con Alain Delon, Renato Salvatori e Annie Girardot.
Al “Principe”, Carmelo lo conoscevano bene. Potevi star certo che girando da quelle parti avresti sempre trovato qualcuno in grado di raccontarti il match del “biondino dal volto pallido” contro il gallaratese Boni o di qualche altra sfida in cui la boxe vera era stata protagonista assoluta.

Poco prima di avventurarsi nella caccia a una maglia da titolare per l’Olimpiade romana, Bossi aveva scritto pagine importanti sul ring di quel vecchio teatro milanese.
La rincorsa di Carmelo alla maglia azzurra per i Giochi era stata agitata, piena di tensione e di domande senza risposte. Lui boxava tra i welter e pensava che quella sarebbe stata la sua categoria anche a Roma. Ma Natalino Rea, il capo allenatore, aveva deciso in maniera diversa. A spingere il tecnico a questa decisione, si diceva all’interno della nazionale, era stata la convinzione che Wilbert McClure, l’americano che i compagni di squadra chiamavano “la zanzara”, sarebbe stato più adatto ai mezzi del milanese che a quelli di Benvenuti.
Bossi sosteneva che nessuno lo aveva ufficialmente informato del cambio di categoria, che aveva dovuto scoprirlo da solo in palestra. Per qualche giorno aveva visto Nino allenarsi ingolfato, coperto di tute e maglioni. La curiosità gli era cresciuta dentro fino a quando non le aveva dato libero sfogo.
-Nino, che hai? Fatichi a fare il peso?
“Certo. Non è facile per uno che si è ormai stabilizzato nei superwelter a 71 chili, scendere tra i welter a 67.”
Tutto qui. Uno schiaffo senza preavviso.
Carmelo diceva anche che con Benvenuti era, e sarebbe rimasto, molto amico. Non era quello il problema. Aveva saputo del cambio per caso. Questo era il problema. Ma Bossi non era certo tipo da farne un dramma. E nella tre giorni romana, dal 4 al 6 luglio, aveva dato spettacolo.
Palazzetto dello Sport, ultimo appuntamento per conquistare una maglia azzurra.
Bossi aveva battuto Sandro Mazzinghi nel primo match. Un incontro duro, disputato su buoni ritmi e vinto dal lombardo che si era dimostrato più vario nei colpi e soprattutto più preciso. Sandro faticava a entrare in azione, i tre round da tre minuti lo costringevano a boxare con il freno a mano tirato. Quando si sbloccava, quando scioglieva i muscoli, era tempo di scendere dal ring. E Bossi lo aveva sconfitto. Poi aveva superato Galmozzi, infine aveva avuto la meglio anche contro Remo Golfarini al termine di un incontro non certo entusiasmante che Carmelo aveva fatto suo soprattutto in virtù di un ultimo round da padrone.

Baci, abbracci, complimenti e la maglia azzurra era un sogno diventato realtà. Così almeno pensava. Non tutti però erano convinti che fosse l’uomo giusto. C’era stata una grande riunione tra i federali ed erano venuti fuori dubbi in serie, interrogativi. Alla fine avevano deciso che il “biondino dal volto pallido” avrebbe dovuto superare un altro ostacolo prima di entrare nel Villaggio Olimpico. E così avevano fatto scendere di categoria il peso medio Tommaso Truppi e lo avevano messo davanti a Bossi. Una sfida insolita, quella tra un welter salito di peso e un medio sceso di categoria. Il pugile lombardo l’aveva affrontata con tanta rabbia dentro. Si sentiva boicottato, era convinto che il clan romano (gli allenatori Rea e Poggi, con l’appoggio della Federazione) ce l’avesse con lui, che in tanti stessero facendo di tutto per lasciarlo a casa.
E aveva sfogato tutta la sua energia contro il povero Truppi che era finito violentemente al tappeto nel corso del secondo round. Era stato a quel punto che dirigenti e tecnici avevano messo fine al combattimento e consegnato la maglia di titolare a Carmelo Bossi, milanese, classe 1939.
Carmelo aveva esordito il 25 agosto contro il rhodesiano Brian Van Niekerk. L’aveva letteralmente umiliato, infliggendogli due knock down nella ripresa iniziale. Era finita ai punti, ma il distacco era stato abissale.
Secondo incontro il 30 agosto contro l’uruguayano Pedro Votta. Stavolta non era stata una passeggiata di salute, ma di un appuntamento con la storia. Lo sapevano tutti che quello non sarebbe stato un match in discesa, ma che si sarebbe subito trasformato in una dura battaglia. Votta avanzava mulinando le braccia, Bossi lo contrastava con intelligenza. Ci riusciva senza tanto affanno nei primi due round, centrandolo con colpi di incontro che lasciavano il segno. Ma nella ripresa finale l’azzurro cedeva e l’altro rimontava, metteva punti dalla sua parte. La vittoria alla fine era assegnata a Carmelo. Era stata una vittoria sofferta, con quattro giudici per lui e uno che aveva assegnato il match al sudamericano.
Il prossimo sarebbe stato, finalmente, il match della vita, il più bello disputato dal milanese all’Olimpiade romana. L’avversario era il francese Diallo. Batterlo avrebbe voluto dire conquistare la certezza di una medaglia olimpica. Quella sera del primo settembre 1960, Carmelo aveva messo in mostra una boxe di rimessa presa direttamente dal manuale del pugilato. Aveva lasciato all’altro l’iniziativa e lo aveva punito sistematicamente. Lo aveva picchiato senza pietà anche nel secondo round. Diallo era un tipo pericoloso, dotato di notevole aggressività, ma non aveva grande tecnica, non era in possesso di una mascella di granito.
Dopo essere andato al tappeto nel round di apertura, nella seconda ripresa il francese aveva piegato le gambe davanti a una perfetta combinazione gancio sinistro, diretto destro di Bossi. Il francese era un avversario fatto su misura per lo stile del milanese che centrava un successo netto, esaltante. Una vittoria che sarebbe rimasta anche negli occhi di Anna, inesperta di boxe ma affascinata da quel ragazzo che si era mosso da padrone sul ring del Palasport romano.

La semifinale, il 3 settembre, se la sarebbe giocata contro il britannico William Fisher che aveva in mente un piano preciso. Non doveva permettere all’italiano di fare la boxe che più gli piaceva, quella piena di ficcanti colpi d’incontro. Doveva stendere il suo sinistro in avanti, cercando così di tenere il lombardo a distanza. Il tutto in attesa di piazzare il diretto destro con cui, sperava, si sarebbe guadagnato l’accesso in finale. Ma Bossi era pugile bravo ed astuto. Passava sotto quel sinistro rigido e accorciava la distanza. A quel punto scaricava lunghe serie al corpo. I suoi colpi al fegato fiaccavano la resistenza di Fisher.
L’inglese, visto annullato il suo progetto tattico iniziale, aveva provato a mettere l’incontro sul piano della bagarre. E aveva attaccato a testa bassa. Dopo due round che si erano chiusi in equilibro, Fisher aveva però visto svanire la sue possibilità nel momento in cui l’arbitro gli aveva giustamente inflitto un richiamo ufficiale con conseguente punto di penalizzazione. Match perso, il “biondino dal volto pallido” era in finale.
Tra Carmelo Bossi e la medaglia d’oro ormai rimaneva solo Wilbert McClure. L’uomo più forte dell’intera categoria, il pericolo annunciato sin dall’inizio del torneo.Ad arbitrare era stato chiamato un uomo esperto, il sovietico Timoshin.
Carmelo aveva cominciato bene. Fintava e colpiva McClure al volto. Due montanti dell’americano avevano rimesso in parità il cartellino dei cinque giudici. L’azzurro era più piccolo di statura, doveva incrociare il suo destro sui sinistri lunghi dell’americano. Stavamo assistendo ad una grande battaglia.
Nel secondo round Wilburn aumentava il ritmo dell’azione, Bossi accusava invece un leggero calo. Erano momenti esaltanti per l’uno, di tensione per l’altro. Era qui, in quei tre decisivi minuti, che McClure accumulava un vantaggio consistente.
Nella ripresa finale, Bossi provava a boxare di rimessa. Ganci e montanti del giovanotto che veniva da Toledo andavano però a segno. Alla fine la medaglia d’oro avrebbe preso la via degli Stati Uniti. Carmelo non aveva nulla da rimproverarsi, aveva perso contro un campione.

Nel professionismo Bossi hai centrato ogni traguardo. Campione italiano, poi europeo e infine mondiale, conquistato il 9 luglio del 1970 battendo con verdetto unanime Fred Little allo Stadio Gino Alfonso Sada di Monza.
La sua era una boxe completa, arricchita da una grande determinazione. Non sempre riusciva ad entusiasmare le grandi folle, ma soddisfaceva chi di pugilato ne sapeva abbastanza. Un campione nel senso pieno della parola. Un uomo d’altri tempi.