Cinquant’anni fa Frazier batteva Ali. La storia di quell’incredibile match

Joe Frazier batte Jimmy Ellis e diventa il nuovo campione del mondo dei pesi massimi.
Dall’altra parte del fiume lo aspetta un tipo che proverà a distruggerli l’esistenza. Si chiama Muhammad Ali, ma Smokin’ Joe continuerà a chiamarlo Cassius Clay per tutta la vita. 
Madison Square Garden, 8 marzo del 1971, cinquant’anni fa. Joe Frazier è il campione. Muhammad Ali è rimasto tre anni e sette mesi senza combattere. Poi è tornato, ha vinto due match e ora è pronto per un’altra Grande Sfida.

Bertrand Russell scrive ad Ali.
«Cercheranno di spezzarla perché lei è il simbolo di una forza che non riescono a distruggere, cioè della ritrovata consapevolezza di un popolo deciso a non lasciarsi più massacrare e degradare dalla paura e dall’oppressione».
Il 20 giugno 1967 il campione rifiuta di partire per il Vietnam. Un tribunale di Houston lo giudica colpevole di «non volere servire le Forze Armate» e lo condanna a cinque anni di prigione e 10.000 dollari di multa. Non dorme neppure una notte in galera, ma gli tolgono il titolo e di soldi ne perde molti di più dei diecimila dollari indicati dalla multa.

Racconta Ali.
«Ho incontrato due soldati neri all’aeroporto. Mi hanno detto: campione, ci vuole fegato a fare quello che hai fatto. Gli ho risposto: se voi sapeste dove state andando, se voi conosceste le possibilità di venirne fuori senza braccia o senza occhi, combattendo quella gente nella loro terra, combattendo i fratelli asiatici, sparandogli, sapreste come comportarvi. Loro non vi hanno mai linciato, non vi hanno mai chiamato negri, non hanno mai aizzato i cani contro di voi, non hanno mai sparato ai vostri leader. L’America vi ordina di sparare a quelli che chiama i vostri nemici e quando tornerete a casa non sarete più in grado di trovare un lavoro. Andare in prigione per pochi anni è niente in confronto a questo. Frazier ed Ellis combattano pure per il mio vecchio lavoro. Il mio nuovo lavoro è la libertà, la giustizia, l’uguaglianza del popolo nero».

Jerry Perenchio ha 40 anni, è il boss della Chartwell Artists, una società che rappresenta Marlon Brando, Richard Burton, Liz Taylor, Jane Fonda, José Feliciano e altre stelle dello spettacolo.
Jack Ken Cooke è il padrone dei Los Angeles Lakers di basket, dei LA Kings di hockey su ghiaccio, ha costruito il Forum di Inglewood ed è proprietario del 25% dei Washington Redskins di football americano.
Perenchio e Cooke mettono su l’affare. Ali e Frazier hanno garantiti 2,5 milioni di dollari a testa, mai nessun pugile ha guadagnato tanto, più una percentuale sugli incassi. La guerra è aperta.
Gestire i media, rubare l’attenzione della gente, essere protagonista è nell’animo di Ali. Sa come fare. Sale sul palcoscenico e comincia la sua battaglia.
Ha distrutto la fiducia che Sonny Liston aveva in sé, ha gettato dubbi, alimentato il nervosismo in ogni suo rivale. Parla come un predicatore, sa giocare con le parole. Ha cambiato volto a questo sport, lo ha portato in una dimensione più ampia, universale.
Dicono che Frazier sia troppo ingenuo per cadere nella trappola. Non è un paradosso, è un’offesa all’intelligenza di Joe. Quel fiume di parole crea comunque un senso di rabbia, alimenta un’idea di impotenza in Smokin’ Joe.

Ci sono mille persone all’interno della vecchia palestra della polizia, al 2917 di North Broad Street a Philadelphia, mentre Frazier si sta allenando. Sanno tutti cosa sta per accadere. Puntuale, Ali mette in scena la sua recita. Arriva a sfidare Joe in un match a pugni nudi sulla strada, davanti alla palestra.
«Io sono qui, non combatto da tre anni, sono 25 pound sovrappeso e Joe Frazier non viene. Che uomo è?»
«Un uomo furbo» gli risponde Yank Durham.
Ali cerca di convertire Frazier all’Islam, quando sente che lui è un Battista convinto, comincia la seconda parte della sceneggiata. Lo insulta ancora, lo chiama Zio Tom. Dice che lui è il campione dei neri, che Joe è amato solo dai bianchi, che non rappresenta il popolo dei neri in lotta per i propri diritti.

La notte prima del match, il telefono squilla nella camera d’albergo di Joe Frazier. Il campione ha dovuto registrarsi sotto falso nome. Ha ricevuto minacce di morte nel caso in cui dovesse battere Ali. La polizia sorveglia la casa di Filadelfia dove la moglie Florence e il figlio Marvis aspettano di vedere l’incontro alla tv.
C’è Ali all’altro telefono.
Joe, sei pronto?”
Sono pronto, fratello”.
Anch’io e tu non potrai battermi, perché sono il più grande”.
Tu dici che sei uno degli uomini del Signore, vedremo in che angolo sarà il Signore”.
Sei sicuro di non avere paura?”.
Ho paura solo di quello che sto per farti”.
Getterò acqua sul tuo fumo. Ti distruggerò. Ci vediamo domani”.
Ci sarò, non tardare, Cassius”.
Ali legge alcuni brani del Corano, poi lascia la stanza del New Yorker Hotel, con lui ci sono Angelo Dundee e Bundini Brown. Il Madison Square Garden dista solo mezzo miglio, lo percorrono a bordo di un’interminabile limousine nera. 
Ali ha bisogno di qualcuno che dica quello che lui vuole sentire.
“Angelo, io non sono solo più grande di Jimmy Ellis. Sono anche più veloce, giusto?”
“Certo campione, Jimmy è veloce. Ma tu sei più veloce”.
“E io picchio più forte, vero Angelo?”
“Senza dubbio campione, molto più forte”.
Allora, se Jimmy ha retto i suoi colpi abbastanza bene, almeno fino a quando Frazier non l’ha centrato, io farò meglio di Jimmy. Vero Angelo?”
“Non ci sono dubbi, campione, tu vincerai”.

È la quindicesima e ultima ripresa.
E Smokin’ Joe continua a braccarlo.
Burt Lancaster ha cominciato ad alzare il tono della voce. Sta commentando il match sul canale destinato al circuito chiuso, è eccitato come un bambino davanti a un negozio di giocattoli.
Frank Sinatra ha il volto tirato, il corpo teso. Non è al Madison per cantare. Continua a scattare foto una dietro l’altra. Saranno pubblicate dalla rivista Life e racconteranno per immagini le magie di questa notte.
Hubert Humphrey guarda lo spettacolo da bordo ring, settima fila. È senatore del Minnesota ed ex vice presidente degli Stati Uniti d’America. Non è riuscito a trovare un posto migliore.
Joe Frazier continua a braccare Ali.
L’ultimo round è cominciato da ventisei secondi quando Joe si protende in avanti. Il sinistro carico, il corpo teso come una molla, il volto tumefatto e una voglia infinita di togliersi di dosso tutto il fango che l’altro gli ha lanciato addosso, senza curarsi di quanto potesse ferirlo. Frazier è pronto a morire per portare a compimento il suo piano.
Ali è stanco di girare, strascina le gambe. Niente magia della danza, nè piedi strusciati velocemente sul tappeto. Niente sguardi irridenti o provocazioni.
Il corpo di Frazier, mentre spara il pugno della vita, è proteso in avanti, in una posizione che non dovrebbe essere l’ideale per liberare il massimo della potenza. Sembra che lavori solo di spalla, senza l’aiuto delle gambe, ma quel gancio sinistro è veloce e rapido come una pallottola. Un colpo sparato da un killer professionista.

BAM!
La mascella destra di Ali è centrata in pieno, il più grande va giù prima con la schiena, poi con tutto il corpo, mentre le gambe si sollevano per un attimo nell’aria.  In quel colpo c’è tutta la rabbia accumulata negli anni, la voglia di sentirsi finalmente libero da quell’ombra che continua a tormentarlo. C’è il desiderio di avere rispetto. Come uomo e come pugile.
BAM!
Joe Frazier ha appena messo knockdown Muhammad Ali. Il più grande va giù per la terza volta da professionista. Prima c’erano riusciti solo Sonny Banks, all’undicesimo match da professionista, ed Henry Cooper.
Ali cade sulla schiena, poi si affloscia con tutto il resto del corpo, lentamente come se si muovesse al rallentatore. Le gambe per un attimo si sollevano nell’aria, è knock down. Conosce l’umiliazione dell’atterramento, umiliazione ancora più grande per chi è abituato solo a vincere.
Si rialza al cinque, quando Arthur Mercante è arrivato a otto è pronto per combattere.


Frazier avrebbe comunque vinto quella prima sfida, infliggendo al rivale la prima sconfitta dopo trentuno successi consecutivi, ma quel gancio sinistro gli regala una felicità che non proverà più.
Gli regala soprattutto quel rispetto che era poi il motivo per cui si batteva ogni volta come un leone, ignorando il dolore, teso soltanto a distruggere il suo miglior nemico.
«Avevo 27 anni e sapevo che non ci sarebbe mai più stata un’altra notte come quella nella mia vita».
Non era solo con i pugni che Joe Frazier sapeva affascinare.
Il successo di Smokin’ Joe è netto, ma nelle menti di tutti noi appare ancora oggi (nelle dimensioni del punteggio) molto meno evidente. Se qualcuno mi chiedesse come sia finito quell’incontro, vi risponderei che Frazier lo ha vinto di un soffio, che senza quel kd forse non ce l’avrebbe fatta, che i tre giudici lo hanno giustamente premiato di misura. Ma se avrete la pazienza di leggere i cartellini, vi accorgerete di come Muhammad Ali abbia plagiato tutti noi sino a farci dimenticare i fatti.
Arthur Mercante: 8 round per Frazier, 6 per Ali, 1 pari.
Artel Aidala: 9 per Frazier, 6 per Ali.
Bill Recht: 11 per Frazier, 4 per Ali.
Un successo chiaro.
Nella platea del Madison c’erano migliaia di spettatori. Molti tifavano Frazier. Ali faceva paura, era la coscienza di un popolo che chiedeva giustizia, che era pronto a lottare per averla. È stata la prima di tre epiche sfide, match di una violenza inaudita, combattuti con tutta l’anima e tutto il corpo. Quella del Madison l’ha vinta Smokin’ Joe. In quel gancio sinistro sparato con forza e disperazione c’era tutta l’anima di Frazier.
C’era la sua boxe, ma anche la sua vita.
E pensare che, anche quella volta, la maledetta sfortuna aveva rischiato di rovinare tutto.
Come e perché me l’ha raccontato Arthur Mercante, arbitro di quella e di tante altre sfide mondiali.
“Era facile arbitrare Ali. Appena gli chiedevo di separarsi, lui si allontanava. Frazier invece avanzava e sbuffava come un toro. Era il decimo round, Frazier non si staccava nonostante io avessi chiamato il break. Li separavo e lui continuava a venire avanti. Avevo il mignolo della mano destra teso, Joe era andato a sbatterci contro e si era leggermente ferito sotto l’occhio. Avevo avuto paura, continuavo a ripetermi: e se adesso va all’angolo e si ferma? Sarebbe stata la controversia del secolo. Per fortuna non è andata così. Joe mi ha urlato: “Toglimi le mani di dosso!”. Quando è andato all’angolo ha detto a Yank Durham: “Sul ring ci sono due bastardi che mi colpiscono!” Abbiamo vissuto il più grande evento sportivo del Novecento”.


Un sorprendente numero di ricerche recenti hanno messo in evidenza i vantaggi del concedersi qualche riflessione nostalgica, suggerendo che questo genere di riflessione aumenta il nostro senso dei legami sociali e del significato della vita. In meno di un secolo, da malattia mortale è diventata un salutare tuffo nel passato: neanche la nostalgia è più quella di una volta. (Tiffany Watt Smith, Atlante delle emozioni umane).
Nostalgia per Ali e Frazier? Tanta.
Se ne sono andati da qualche anno, Ali ne aveva 74, Joe 67. Hanno scritto la storia dello sport e del tempo che hanno attraversato. Nostalgia non è un insulto. Forse è soltanto un guscio sicuro dove rifugiarsi, quando il futuro sembra non avere speranza di uguagliare il passato. E non parlo solo di boxe.

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