Interviste senza tempo La vita e il pugilato 3. Mario Romersi

Senza memoria non si costruisce il futuro. In questi giorni mi sembra sia un concetto da urlare, non c’è domani senza il rispetto del passato. Lo sport è fermo, la boxe non fa eccezione. E allora sono andato a cercare in questo blog delle parole che propongano una storia. Un intreccio tra ieri, oggi e domani. Interviste con personaggi che si sono saputi raccontare. Sono dieci, ve le ripropongo ferme nel tempo, domande e risposte senza (quasi) alcun ritocco. Buona lettura.

3. continua
(1. Leonard Bundu, 6 aprile; 2. Luca RIgoldi, 7 aprile)

 

 

 

 

 

 

 

 


Mario Romersi, romano del 1946, campione italiano dei medi
nella seconda metà degli anni Settanta,

in Italia è stato lo sparring preferito di Carlos Monzon.
Gli ho chiesto di aiutarmi a capire chi era quell’uomo
che in una drammatica notte romana ha rubato i nostri sogni.

 

13 settembre 2012

Mario, come definiresti il pugile Carlos Monzon?

“Una belva, con un destro micidiale. Un fenomeno”.

E come uomo, che tipo era?

“Scontroso, riservato, poche parole, prepotente”

Era davvero così pesante il destro dell’argentino?

“Provo a spiegarmi. Ogni volta che ti prendeva, ti sentivi come se qualcuno ti avesse tirato addosso un sacco di sabbia pressata. Eri fortunato se andavi a terra. Perché altrimenti, quello ti intronava e poi non finiva di picchiare finché non ti aveva distrutto”.

C’è un colpo che ricordi in modo particolare?

“Mi ricordo la prima volta che abbiamo fatto i guanti al Flaminio. Lo conoscevano in pochi, anche se era lo sfidante di Nino Benvenuti per il mondiale dei pesi medi. In palestra c’era la televisione, tanti giornalisti. Io ero un po’ timido e me ne stavo in un angolo a fare l’esercizio al sacco, lontano da tutti. Mi hanno avvicinato Capo Repetto e Amilcar Brusa e mi hanno chiesto: “Ti va di allenarti con lui?”. Gli ho risposto: “Non ho certo paura”. E sono salito sul ring. Ho alzato il sinistro nel classico gesto di saluto e Monzon mi ha incrociato col destro. Mi è improvvisamente sembrato di essere su un disco volante. Tutto attorno a me girava vorticosamente. Vedevo anche tanti piccoli cinesi che facevano roteare dei piatti su esili bastonicini di legno. Quel destro mi aveva completamente imbambolato”.

E lui?

“Ha continuato a venire avanti e a picchiare”.

Vi hanno fermato?

“Non avrei mai fatto la figura di quello che se ne va al primo cazzotto, anche se terribilmente duro. Ho fatto altre due riprese, ma quel destro non lo dimenticherò mai”.

E poi?

“Il giorno dopo mi sono alzato alle 5 del mattino, ho fatto footing, ho mangiato una bistecca da tre etti e bevuto solo un po’ d’acqua. Come se avessi dovuto fare un match. Alle quattro meno un quarto ero in palestra a scaldarmi. Nel terzo round di guanti l’ho preso d’incontro sul naso col diretto destro e ho sbagliato di un centimetro il gancio sinistro con cui avevo doppiato il colpo. Sabbatini, che era sotto al ring, ha urlato: “Mario, fermati che mi rovini 400 milioni!”. Il giorno prima però, nessuno era intervenuto”.

Quindi non ricordi Monzon come un campione assoluto?

“Ma vuoi scherzare? Era un fenomeno. Per darti un’idea di quanto facesse male, ti dico che quando salivi sul ring contro di lui era come se tu lo facessi a mani nude e lui imbracciasse un fucile. Era devastante. Non aveva il pugno secco, quello che ti stende subito. No, lui era peggio. Con un colpo ti ammorbidiva e con gli altri ti annientava”.

La qualità migliore del pugile, oltre alla potenza del destro, quale era?

“Era scoordinato”.

In che senso?

“Noi pugili guardiamo l’altro negli occhi, lì c’è la verità. All’80%, se sei bravo e attento, capisci quale colpo l’avversario sta per portare. Lui no. Ti sembrava lento, poi vooom e ti arrivava il sinistro in faccia. Faceva un piccolo spostamento, portava in avanti la gamba e vooom ti tramortiva col destro. Poi, ti bastonava senza che tu capissi più da dove partissero i colpi. A quel punto capivi che era inutile guardarlo negli occhi”.

Quante riprese di guanti hai fatto con lui?

“È venuto al Flaminio la prima volta quando ha conquistato il mondiale contro Benvenuti a Roma. C’è tornato per Bouttier, Briscoe e Valdez. Diciamo che ogni volta si fermava per una settimana, in totale avremo fatto più di 100 round. Veniva e voleva fare i guanti con me. Forse perché ero un buon tecnico, forse perché era diventata una sorta di scaramanzia”.

Aveva rispetto per lo sparring?

“Mi avrebbe volentieri messo per terra in ogni momento. Era senza pietà”

Un ultimo episodio da ricordare?

“Facevamo i guanti, io lo stringevo spesso in clinch per riprendere fiato. A un certo punto mi ha morso tra la spalla e il collo. Un dolore terribile, ma lui ha continuato a combattere come se niente fosse”.

Chi c’era in palestra quando vi allenavate?

“Capo Repetto, il suo maestro Amilcar Brusa, il manager Tito Lectoure, qualche volta Rodolfo Sabbatini. E soprattutto, tanta gente. Un centinaio di persone, sembrava di essere a una riunione. Io all’epoca abitavo con mamma e papà al Villaggio Olimpico, a due passi dalla Palestra del Flaminio. C’erano tutti gli amici a vedere me, ma soprattutto Monzon”.

Che memoria ti è rimasta di quei giorni?

“Mi è piaciuti viverli. Tutti, ogni momento”.

 

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