Evander Holyfield vs George Foreman
(19 aprile 1991)
6. continua
In un tempo in cui siamo condannati alla solitudine, mi piace ricordare i giorni in cui attraversavo il mondo andando a caccia di storie da narrare. Non è una classifica dei migliori match della mia vita, né dei più importanti. Sono semplicemente dieci incontri che mi hanno regalato intensi ricordi.
Questa che sta per finire è una domenica di lavoro per il reverendo Foreman. Officia messa alla Shiloh Baptist Church.
Una chiesa ben messa, in un quartiere desolato. Finestre rotte, muri che cadono a pezzi. Ad ascoltarlo ci sono centocinquanta tra fedeli, giornalisti e cameramen dell’ESPN.
Ricorda i tempi in cui la sua unica verità era la violenza, poi canta
Oggi una cosa chiederò al Signore,
sempre questa sola cercherò con gioia:
voglio abitare la sua casa ogni giorno di vita
Dio è mia luce, Dio è mia salvezza:
nulla più temerò.
Alleluia! Gloria canto al mio Signore!
Alla fine, prima di salutare, chiede un favore.
“Pregate per me e per Evander Holyfield. Ne abbiamo bisogno”
Fuori dalla chiesa lo aspetta una Lincoln bianca che l’accompagna in albergo. La sua vera parrocchia è a poca distanza dall’aeroporto internazionale di Houston, Texas. Lì recita quattro sermoni: uno il venerdì e il sabato, due la domenica. Ha creato un Centro per la Gioventù ad Aldine, a tre isolati di distanza, in quella stessa zona a Nord Est di Houston dove ha trascorso una gioventù turbolenta.
È cambiato Big George non è più il piccolo delinquente di strada e neppure il ricco campione del mondo che prendeva la vita come se dovesse finire il giorno dopo.
Dopo la sconfitta con Jimmy Young ha venduto tutto e se ne è andato a vivere ad Hubmle, sobborgo di Houston. Ancora oggi se ne sta lì con la quinta moglie Joan e sei dei suoi dieci figli.
Un giornalista di Sports Illustrated l’ha seguito per alcuni giorni di allenamento e ha raccontato quanto fossero singolari i personaggi del suo clan. Nel gruppo ci sono tre amici. Un contabile di 60 chili, un commesso viaggiatore di 100 e un idraulico di 95.
“Loro sono la preda e io il predatore. È un gioco che mi impegna e mi eccita. A 43 anni devo pur trovare delle motivazioni per andare avanti.
George, perchè continui a combattere?
“Lo faccio perché le tasse mi stavano mangiando tutto. Perché aiutare i giovani costa. Perché sono stanco di raggranellare soldi chiedendoli alla gente. Ma forse lo faccio soprattutto per aiutare mio fratello Roy. Ha aperto una palestra di pugilato a Houston, insegna boxe ai ragazzi, cerca di toglierli dalla strada. Una volta ero lì. È entrata una donna con un giovanotto. Le ho detto: Signora porti questo figliolo in Chiesa da me, ha bisogno di buone intenzioni più che di prendere e dare pugni sul ring. Se ne sono andati. Tre giorni dopo ho saputo che quel ragazzo è stato ucciso mentre cercava di rapinare un benzinaio. Beh, sono tornato a combattere proprio perché non vorrei più sentire storie così.”
Ai giornalisti non piace l’idea che Foreman sia tornato sul ring. Continuano a chiamare Evander Holyfield “The Real Deal” (il vero affare) e Big George “The Real Meal” (il vero pasto). Altri, con meno fantasia, lo chiamano moviola, bue, mammut. Ma è anche vero che nessuno ignora l’evento.
Foreman è apparentemente sereno. Sorride davanti agli insulti, finge una reazione rabbiosa, lancia minacce che non saranno mai portate a compimento.
Questo signore di quarantatré anni, centonovantaquattro centimetri di altezza per centoventi chili di peso, cranio pelato, pancia che deborda dalla cintura, ha capito di avere centrato l’obiettivo. L’affare l’ha fatto lui. Guadagnerà quindici miliardi di lire, spicciolo più, spicciolo meno. Il Centro per la Gioventù è salvo. Forse ne potrà addirittura mettere su uno nuovo.
Nella seconda vita pugilistica ha messo via ventidue birilli, poi ha distrutto Bert Cooper, Gerry Cooney e Adilson Rodrigues. Niente di trascendentale, ma comunque è la prova che non vive solo di ricordi.
Piove e la gente si rifugia dentro i Casinò. Si respira l’atmosfera del grande evento. Per sabato sera non si trova una stanza libera neppure a pagarla oro. Anch’io al momento rischio di dormire sulla boardwalk. La prenotazione del mio albergo scade il giorno del match. O trovo un’altra sistemazione o dovrò sistemarmi sulla spiaggia.
Il mare si agita, sporco e nervoso. Uomini e donne continuano a bruciare soldi nelle case da gioco.
Big George Foreman sembra essere l’unico a sorridere. Ciccione, vecchio e lento, ma ancora capace con un solo pugno di stendere qualsiasi avversario.
Holyfield è avvisato.
Evander è il campione in carica, ma non riesce proprio ad accender gli animi. La stampa dice che è il meno eccitante re dei massimi dopo Floyd Patterson.
“Noioso come una partita di canasta” ha scritto Michael Marley sul New York Post.
Lo allenano Lou Duva e George Benton. Il preparatore atletico è Tim Hallmark, ex campione di triathlon. Poi c’è Marya Kennet. Lui la chiama affettuosamente Shirley Temple. Lei è una signora di sessant’anni, quattro volte nonna, insegnante di danza. Ha uno studio a Goshen, New York. Lavora sulla flessibilità dei muscoli del campione, sulla distribuzione del peso del corpo, sulla prevenzione degli infortuni muscolari. Ogni giorno, tre ore di incredibili esercizi.
“La prima volta che l’ho incontrata mi ha fatto lavorare per quarantacinque minuti. Credevo di morire. Faceva ogni esercizio assieme a me. Alla fine a essere distrutto ero io.”
Evander ha studiato un piano con il suo clan e intende portarlo a compimento.
Il campione è convinto che il tempo in cui i rivali di Big George dovevano temerne le repliche sono finiti. Ora anche per lui al primo posto c’è la sicurezza. Se gli spari un colpo, pensa solo a ripararsi. Tutti gli uomini che l’hanno affrontato nella seconda parte della carriera non hanno mai avuto il coraggio o la forza di provare a tirare delle lunghe serie.
“Holyfield lo colpirà con così tanti pugni che penserà stia piovendo sulla sua faccia” dice Benton.
Neppure il montante destro, l’arma migliore dell’ex campione, preoccupa il vecchio maestro.
“Puoi vedere quel colpo mezz’ora prima che arrivi”.
Chiedo allora cosa dovrà fare Evander per vincere.
“Non dovrà dare molto spazio a Foreman, dovrà stargli davanti. Vicino, ancora più vicino di quanto non abbia fatto contro Douglas. So benissimo che quella zona è una sorta di area del basket. Se ci rimani troppo a lungo, vieni punito. Ma anche la testa di George sarà come una palla da basket. Il mio uomo tirerà tre-quattro pugni su quel faccione e poi si sposterà un attimo indietro. L’altro si sentirà frustrato, stanco e con il passare dei round commetterà qualche errore. Quando saranno vicini, Evander dovrà piantare la spalla sinistra sul torace di Foreman, così quello non potrà tirare l’uppercut e neppure il lungo jab. Quando alla fine lui penserà di poter portare il montante destro, partirà il gancio sinistro di Holyfield. E la storia sarà finita.”
Il campione è bravo, è forte, ma non riesce a diventare universalmente popolare. Per due settimane si è allenato a Houston in una palestra frequentata da yuppie che vogliono mantenersi in forma.
Nessuno l’ha fermato per strada, nessuno gli ha chiesto un autografo, nessuno l’ha mai chiamato Champ.
Foreman oggi si allena al Trump Plaza. Vado a vederlo. Quattrocento spettatori paganti, risate, applausi e incoraggiamenti per lo show di questo eterno giovanotto.
Fa finta di misurarsi con tre sparring, mangia un cheesburger, scambia battute con il pubblico e formula degli indovinelli. Chi indovina riceve in regalo una maglietta.
Tutto questo serve per la promozione dell’evento, per aumentare la popolarità del personaggio. Gli allenamenti, quelli veri, li fa in una palestra nella città vecchia. Non si può entrare, qualsiasi estraneo al gruppo deve restare fuori dalla porta, ingresso vietato soprattutto ai giornalisti.
Mi diverto a guardarlo mentre mette in atto la pantomima, la gente lo adora. So già per chi tiferanno le sera del match.
“Sono come la Cometa di Halley, come un’eclissi di sole. Potete vederla una sola volta nella vostra vita. Forza gente, comprate binocoli e telescopi. So che il clan di Holyfield ha studiato alcuni miei filmati. Errore. Come puoi studiare un miracolo? Cosa è un miracolo? Uno che mangia in continuazione. Io ho un sogno e nessuno mi impedirà di realizzarlo, neppure questo bravo ragazzo accanto a me. Ha muscoli dappertutto, anche nelle orecchie e nelle dita dei piedi. Ma non potrà battermi. Gente, correte a comprare il biglietto”.
I tifosi puntano solo su di lui. I vecchi eroi dicono che tornerà padrone del titolo. L’angolo di Big George sarà vecchio stile: il settantottenne Archie Moore e il settantatreenne Angelo Dundee.
A guidare Holyfield ci sarà Lou Duva. In tasca avrà una boccetta di pasticche per il cuore. Tra poco entrerà in ospedale per un bypass. L’ultima visita di controllo l’ha avuta un mese fa, due giorni di ricovero. E siccome la boxe è la sua vita, si è fatto raccontare al telefono quelle quarantotto ore di preparazione dalla fidanzata Darleen Baldinelli: 36 anni contro i 69 di lui. Lou è scatenato. Muove con agilità quel corpo che ha bisogno di cure, spara parole come una mitragliatrice.
Ma siamo tutti qui per Foreman. Il vecchio, ciccione, lento George Foreman. Holyfield non può perdere questo match, ha la velocità per andare a segno e togliersi dalla zona pericolosa prima che l’altro porti i suoi colpi. Alla distanza stanchezza e frustrazione dovrebbero completare il lavoro, a meno non sia già stato fatto prima.
Tutto scontato.
Eppure sono qui per vedere se qualche colpo isolato di Big George andrà a segno, se la Cometa di Haley passerà davvero per Atlantic City.
La mattina del match mi sento più sereno. Ho addirittura trovato una stanza in un motel malandato appena fuori città. Brutto e inquietante, ma almeno dormirò al coperto.
Al suono del gong, Foreman alza quel testone pelato e si guarda intorno, poi lentamente si dirige verso l’angolo.
La folla impazzita grida il suo nome facendo tremare le mura della Convention Hall. Diciassettemila persone in piedi rapite dal mito inseguono assieme a lui il grande sogno.
Si è appena chiuso il settimo round, Evander Holyfield ha capito quanto facciano ancora male i pugni del vecchio, lento, ciccione George Foreman.
È un bel match. La sensazione che il miracolo possa avverarsi mi accompagna sino alla fine, anche se devo riconoscere che il netto verdetto a favore del campione non è certo frutto di uno scandalo.
Il jab sinistro di Big George, una mobilità superiore a quanto si pensasse, l’incredibile resistenza ai colpi del rivale. Queste le spiegazioni tecniche per capire perché sia riuscito a sorprendere Holyfield. Ma per comprendere la ragione per cui un uomo di 43 anni è riuscito a dare problemi a un campione del mondo di 28 bisogna entrare nell’animo dei due.
Holyfield è timido, introverso, molto probabilmente insicuro. Sale sul ring succube del carisma di Foreman.
Nell’ottava e nona ripresa il testone pelato del vecchio campione sembra il punching ball di una logora palestra di periferia. Dondola sotto i colpi del più giovane nemico. Il sudore mette ancora più in risalto il fisico scultoreo di Holyfield e ingigantisce i rotoli di ciccia che escono dalla cintura dello sfidante.
Oscilla Big George, ma non cede. E allora l’altro viene assalito dai dubbi, pericolosi fantasmi vanno a occupare la sua mente.
GE-O-R-GE
GE-O-R-GE
Urla così Gene Hackman, cercando conforto in Sugar Ray Leonard, il vicino di sedia.
Urla Kevin Costner, con lui ritmano quel nome anche Bruce Willis, Robert Duval e Bob Jovi.
Sono tutti per il vecchio eroe che insegue un sogno. Sono in delirio, come l’intera sala.
Holyfield si sente offeso da tutto questo e allora stravolge il copione. Non si accontenta di vincere il match, cerca di chiuderlo prima del limite per confermare agli altri, ma soprattutto a se stesso, che non siamo più negli anni Settanta. Oggi il re è lui.
Riesce a vincere, ma non a cancellare nel cuore della gente l’immagine di Big George Foreman
“Sono furioso con Lou Duva, non mi ha detto che avrebbe portato un mulo sul ring. Continuate a chiedermi perché non mi sia seduto durante gli intervalli. Sono una persona anziana, se l’avessi fatto probabilmente avrei finito con l’addormentarmi”.
Così parla Big George dopo l’incontro.
In nottata vola a Houston, al mattino ha un appuntamento a cui non può mancare. Deve celebrare la messa nella Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo.
Amen.
(tratto da IL MATCH FANTASMA di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free)