Loris Stecca scopre l’inferno allenandosi in una cella a Portorico

Il 26 maggio 1984 Loris Stecca difende il mondiale WBA
supergallo contro Victor Callejas a Guaynabo (Portorico).

 

San Juan de Portorico, 22 maggio 1984
Loris Stecca ha lo sguardo rabbioso, le cose non vanno bene.
«Hanno studiato tutto alla perfezione, mi muovo in un clima di intimidazione, di litigi continui. In allenamento la gente mi fischia, mi insulta ogni volta che prendo un colpo. Callejas cerca di innervosirmi e il suo clan sembra abbia il solo compito di darmi fastidio. Ivan, il figlio del maestro Ghelfi, e mio suocero Lillo Platania sono quasi venuti alle mani con Hector: il fratello dello sfidante. Erano andati a vedere un suo allenamento. Li hanno riconosciuti, sono stati invitati ad allontanarsi. Sono volate parole grosse, insulti, minacce di sistemare la cosa con una scazzottata di strada. Nell’isola hanno già deciso tutto. Sperano che mi crollino i nervi e perda ancora prima di cominciare. L’unica cosa che mi chiedono in continuazione è a che ripresa finirò ko. Pepito Cordero da queste parti è il boss, il padrone. E nella WBA conta molto, impossibile non accorgersi della congiura. Hai capito in che ambiente mi sto muovendo?».
Gli chiedo se tema di salire sul ring condizionato da tutto questo, se stia facendo qualcosa per tenere lontano il nervosismo che lo sta avvolgendo come un serpente.
«Se mi batterà perché è più bravo, bene. Non si può sempre vincere. Ma a farmi rubare il match non ci sto. Ho sudato, mi sono sacrificato, non mi lascerò portare via il titolo tanto facilmente. Ho curato i minimi particolari, mi sono anche tagliato i capelli: non voglio che un colpo subìto possa essere interpretato in maniera più netta di quanto non sia nella realtà. Non ho trascurato niente, niente può essere trascurato se ti muovi in questo ambientino».
Domani andrò a dare un’occhiata all’allenamento. Voglio capire sino in fondo cosa sta accadendo.

Guaynabo, 23 maggio 1984
Lascio San Juan e punto verso Guaynabo, guido per trenta chilometri in direzione sud. Un sole infuocato mi fa compagnia, l’aria condizionata della macchina non funziona.
Loris si allena al Metz Pavillon, di fronte alla casa di Victor Luvi Callejas. L’altro non deve fare altro che chiudersi la porta alle spalle, camminare per meno di venti metri, attraversare la strada ed eccolo nel Palazzetto dove si disputerà il mondiale.
In fondo al parterre c’è animazione. Sento urla, insulti, minacce. Mi faccio largo a fatica tra una decina di scalmanati e sono davanti alla stanza dove si sta preparando il romagnolo. È nell’anello più grande, al pianterreno. Venticinque metri quadri. Tre pareti, il quarto lato è costituito da una serie di sbarre che trasformano quel luogo in una gabbia. Sembra la cella di una prigione. Aggrappati alle sbarre i tifosi di Callejas insultano Loris.
Va avanti così da dieci giorni. Il campione ha ragione, c’è da perdere la testa.
I fischi sono l’offesa più gentile…

(tratto da ERAVAMO L’AMERICA di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free)

 

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