Centodieci anni fa, il 16 ottobre 1909, Jack Johnson e Stanley Ketchel si affrontavano per il mondiale dei pesi massimi. Questa è la storia di quella sfida (da “Stanley Ketchel, il più grande dei selvaggi del ring” di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free).
Nel libro, Ketchel racconta in prima persona.
Sto per affrontare Jack Johnson, il campione del mondo dei pesi massimi. Una sfida impossibile contro l’uomo che è diventato l’incubo dei bianchi. Sono tutti convinti che non potrò mai farcela.
Io la penso diversamente. Non ho paura di nessuno.
Basterà che beva un po’ di meno e mi dedichi con minore passione alle donne. Non sarà poi così difficile, per qualche giorno posso farcela.
Il cappotto che indosso è enorme, tre misure oltre la mia taglia. È fatto con una lana pungente che mi dà fastidio. Non è la sola cosa esagerata che ho questa mattina. Gli stivali hanno un tacco di dieci centimetri e non mi fanno sentire tranquillo.
Ogni passo che faccio rischio di cadere.
Jim Coffroth è stato chiaro. Nelle foto ufficiali non devo dare l’impressione di essere troppo più piccolo di Jack Johnson, altrimenti la gente non verrà a vederci e l’affare fallirà ancora prima di cominciare.
E così mi ha costretto a presentarmi al peso in queste condizioni.
Sono goffo, il cappotto sembra appartenere a qualcun altro. Ho lo sguardo fisso nel vuoto. Ma in fondo quelle foto mostrano come mi senta in quel momento. Sono uno a cui hanno imposto un ruolo che non vuole recitare. Ho lo sguardo triste e cattivo. Odio tutti.
Dopo le operazioni di peso, Jack Johnson mi offre da bere. Una bottiglia di vino da dividere tra noi due. Mi giro verso Carl Jeffries, un vecchio amico, uno con cui ho condiviso mille avventure.
Mi avvicino al suo orecchio, parlo piano, non voglio che l’altro senta.
«Forse è convinto di appendermi come si fa con i soprabiti. Non sa che potrei usare il suo culone per tracciare i solchi nei campi della mia fattoria. Ed è proprio quello che intendo fare dopo averlo messo ko».
I giornali hanno scritto che i nosti manager si sono messi d’accordo, che vogliono finisca pari così ci sarà spazio per una rivincita e vogliono che la nostra sfida sia credibile, ci sono montagne di dollari che ci attendono. Scrivono che si sono incontrati in un ristorante di San Francisco e hanno fatto un patto: se non ci sarà knock out, l’incontro sarà considerato pari.
Devono girare un film, un 35 millimetri, sull’evento.
Sono i primi esperimenti di cinema. Divideremo il quaranta per cento dell’incasso che verrà dalla vendita dei biglietti nei teatri in cui sarà proiettato. È chiaro che non potrà essere un incontro di pochi round e poi via, tutti a casa.
È appoggiandosi a questa scusa che Jack Johnson metterà in giro la voce che il match fosse combinato, che fossimo d’accordo nel portarlo oltre la decima ripresa.
C’è un fondo di verità, ma è un accordo che non ho mai condiviso.
E poi lui parlerà solo a incontro concluso. Prima, neppure una parola. Sparlerà per giustificare il fatto di essere finito con il suo sederone per terra. E a regalargli quel knock down ero stato proprio io: dodici centimetri e diciassette chili più piccolo di quel gigante che è.
Lui è salito sul ring tirato a lucido fino a novantaquattro chili, io sono ingrassato fino a settantasette per non rendere improponibile il confronto. Quasi nove chili sopra il mio peso naturale. Ma non c’è alcun accordo tra me e lui. Uno qualsiasi dei diecimila spettatori che riempivano l’arena di Colma avrebbe potuto confermare la mia versione della storia.
Cerco di trovare un po’ di relax nel mio camerino.
«Ehi Stanley, è tempo di prepararsi».
«Finisco di raccontare la mia storia e arrivo».
«Non fare il cretino, Jack è già pronto. Tra poco si comincia».
«Non me ne frega niente né di Jack, né di te, né del mondo intero. Nessuno ha mai detto a Stanley Ketchel cosa deve fare».
Concludo la storia, spengo la sigaretta.
Willis Britt detto Willy è il mio manager. È un tipo strano. Ha chiesto i danni al Municipio di San Francisco per il terremoto dell’aprile del 1906. Quel disastro naturale ha ucciso più di cinquecento persone, ma ha anche distrutto i suoi uffici.
«Non possiamo farci nulla, è stato un evento voluto da Dio» gli hanno detto quelli del Municipio.
«Non ne sarei troppo convinto, dal momento che ci sono andate di mezzo anche le chiese» ha replicato lui.
Non ha preso un dollaro.
È il 16 ottobre del 1909, salgo sul ring per il titolo mondiale dei pesi massimi. C’è un dolce sole autunnale e il cielo è di un blu così intenso da commuoverti.
Jack Johnson si prepara accanto a una vecchia fattoria. Fa sparring con quattro diversi pugili. Sembra sia andato andato al tappeto in allenamento. A metterlo giù, dicono, è stato Edward J. Smyth. Un ex marinaio che tutti conoscono come Gunboat Smith. Un ventiduenne di Philadelphia con dei piedoni enormi, mi sembra calzi il dodici! Ha piedi così grandi che sulla nave non trovano scarpe per lui. Corre scalzo, quando esce calza un paio di scarpe tre misure più grandi di quelle che dovrebbe avere. Così è nato il soprannome.
La storia è affascinante, ma non so se crederci o meno.
Resto comunque catturato da uno dei racconti che Sunny Jim ripete in continuazione.
«Yank Kenny è un omone di centocinque chili, anche lui fa da sparring a Jack Johnson. Una volta mi ha preso da parte con aria da cospiratore.
“Devo raccontarti una storia”, mi fa.
“Dimmi Yank”, gli faccio.
E lui comincia.
“La mia stanza confina con la sua. Una notte mi sono svegliato, una donna urlava dalla camera di Jack. Era Sheila, una favolosa biondina con gli occhi verdi, lunghe gambe e un sedere da urlo. Strillava e piangeva: “Non picchiarmi più, ti prego. Non picchiarmi e lo farò, farò ogni cosa!””
Che cosa le stava chiedendo il campione? Quale pratica sessuale voleva che praticasse la povera Sheila? Chiedo.
Lui sorride.
“Questo non lo so, ma di certo si sono messi d’accordo. C’è stato un attimo di silenzio e poi ancora urla, ma completamente diverse dalle prime”».
Nell’arena ci sono marinai, cinesi, belle donne che non si faranno pregare molto per fare compagnia a maturi signori, uomini di ogni nazionalità.
L’Arena è piena. Hanno comprato il biglietto diecimila spettatori, altri tremila sono stati accompagnati fuori dai cancelli. E adesso lassù in alto sulla collina c’è chi non ha nessuna voglia di perdersi lo spettacolo. Si sono portati anche un telescopio per vedere il match senza sborsare un cent.
Johnson è il netto favorito. Ogni dollaro puntato su di me ne vale due e mezzo nel caso dovessi farcela. Sono in pochi a crederci. E anche io sto cominciando a perdere le certezze che avevo fino a pochi giorni fa. Lui è grande, è grosso, è enorme. E io sono piccolo addirittura per i pesi medi. Figuriamoci tra i massimi.
Saliamo sul ring, quando mi tolgo l’accappatoio le bugie lasciano il posto alla realtà. La sproporzione è pazzesca.
Jack è una statua d’ebano. È alto uno e ottantasette e pesa novantaquattro chili. Assai più grande di me che sono esile anche nella mia categoria. Anche gli amici pensano che io sia una vittima designata. Sento una strana elettricità tra il pubblico. Tifano quasi tutti per me. Perché sono sfavorito, perché sono più piccolo. Ma soprattutto, perché sono un bianco.
Quando tutti scendono dal ring mi chiedo se stavolta non abbia davvero osato troppo. All’altro angolo c’è questo nero enorme, ha messo via tutti i suoi rivali e ha già raccontato in giro come finirà la nostra sfida. Ogni racconto si concludeva con me, privo di sensi, al tappeto. Non so, ma sento una strana sensazione. E se fosse paura? Di quella vera però.
Lui arriva con la faccia triste di un uomo tormentato da mille pensieri. Poi, mentre sale quei tre gradini il suo volto si trasforma lentamente. Mi guarda e sorride.
«È il momento di dare spettacolo Mr. Ketchel. Facciamola almeno sembrare una commedia credibile!»
Non riesco a capire cosa passi per la sua testa.
La gente lo insulta.
Per me ci sono solo applausi e incitamenti.
Prova ad attirarsi qualche simpatia indossando la bandiera americana come cintura. Grugniti e parole piene di odio razziale si aggiungono agli insulti.
Nessuno lo ama. Ha preso a schiaffi il mondo dei bianchi, ha fatto l’amore con le loro donne, non si è mai vergognato di esibire in pubblico la sua ricchezza. Ma lui non se ne è mai curato. Quando qualcuno glielo ha fatto notare, ha sempre risposto in modo arrogante.
Non trova comprensione. E certamente non troverà amici.
Primo round. Provo a colpirlo, lui fa un passo indietro, schiva e sorride. Sa che un bianco pestato a sangue diventa un eroe, ma se a quel bianco fai fare la figura del fesso finirai con l’umiliarlo anche se la folla ti è contro.
Jack poggia il peso del corpo sul piede destro, poi si sposta leggermente all’indietro rendendo vano e patetico il tentativo di allungarmi per centrare la mascella. Mi piazza un jab sinistro in faccia, poi ancora un altro e un altro ancora. Per fortuna non porta ancora i montanti.
Nel secondo round finisco al tappeto, al cinque sono di nuovo in piedi. Ho il naso rotto, il sapore dolciastro del sangue si mischia alla saliva. Il campione sfrutta tutto il vantaggio della stazza per prendersi gioco di me.
Spesso finiamo in clinch, ci abbracciamo per impedire a entrambi di mettere dentro i colpi migliori. Poi, riprendiamo a combattere. Lui schiva e rientra. Non ha fretta, non c’è rabbia nella sua azione. Lavora con freddezza, spietato e irridente. È un killer che sente di avere la vittima nel mirino, non c’è nessuna ragione di affrettare i tempi. Prima o poi mi farò del male da solo.
Eppure, lo so, si è allenato senza dannarsi l’anima. Il suo campo sembrava pronto per un ricevimento di nozze, per un party, più che per ospitare le fatiche che comporta una preparazione al campionato del mondo dei pesi massimi.
Qualche leggera seduta con quattro sparring: Young Peter Jackson, Bob Armstrong, Gunboat Smith e Johnny O’Keefe. Poi, luci, balli, musica, vino e donne. Tante donne. C’erano Bellie, Hattie e Lillian, tre prostitute bianche, come lo erano molte di quelle che il campione ha frequentato nel recente passato.
A Jack Johnson fa piacere che la gente lo consideri un uomo senza anima. Sul ring è il padrone del mondo, lo è senza sforzo apparente. Anziché correre per fare fiato, se ne è andato a scorazzare in macchina lungo le colline della Bay Area. Con lui c’erano l’autista bianco Marvin Jacobowski e quelle tre puttane che non lo lasciano mai.
So tutto questo e in cuor mio spero a ogni round che alla fine gli arriverà il conto di quelle stravaganze. E a presentarglielo sarò io.
Ripresa numero nove.
Lo fermo con un gancio destro che si schianta sulle costole. Mi guarda stupito, sta pensando perché io sia ancora in piedi, perché tenti di colpirlo. In bocca sento ancora di più il sapore del sangue, mi serve per tenere viva l’attenzione, lui è sempre sulla difensiva. Fino a quando se ne starà lontano non potrò mai centrarlo con forza. Continuo a pensare che mi basterebbe un colpo per mettere giù questo gigante. Devo farlo venire avanti, devo farlo scoprire.
Giriamo sul ring con movimenti lenti, guardandoci negli occhi, siamo due belve che aspettano il momento giusto per sbranarsi.
C’è grande tensione. Le voci della folla sono in sottofondo, mi sembra che anche quelle diecimila persone stiano aspettando l’ora della giustizia, quella in cui un piccolo bianco metterà fine all’arroganza del gigante nero.
Cerco dentro di me la rabbia, la disperazione, la fame della gioventù. So che da lì può nascere il grande sogno. Come un lampo ricordo tutto quello che di me hanno scritto quei bastardi dei giornalisti.
E allora, che il sangue scorra. L’Assassino è pronto a colpire.Lo colpisco. Lo centro al collo, al torace, alle costole.
George Little urla a Willy Britt attraverso l’intero ring.
«Ma quello cosa cazzo sta combinando?»
Gli uomini al mio angolo restano a bocca aperta.
Vado avanti, io vengo direttamente dall’inferno. Non conosco patti, non so nulla di accordi. Voglio vincere, voglio buttare giù questo omone nero. Il resto non mi importa, non mi interessa.
Continuo a dannarmi l’anima. Lo centro al petto, sulle braccia, ancora in faccia. Lui mi guarda e sorride.
«In qualsiasi modo tu voglia combattere, a me sta bene piccolo uomo».
Britt urla.
«Che diavolo stai facendo? Non erano questi i patti!»
Non so di cosa stia parlando. Di quali cazzo di patti parla?
Continuo a lottare.
Quando torno all’angolo il mio manager ha gli occhi di fuori.
«Dimmelo per favore. Dimmelo che sto vedendo la più grande recita nella storia del pugilato».
Lo fisso e rispondo.
«Io quello me lo mangio».
George Little è sempre meno sereno, teme la reazione furiosa di Johnson. Pensa che possa uccidermi. Quando il Gigante arriva all’angolo la voce del coach è poco più di un sussurro, vuole evitare una reazione violenta. Hanno tutti paura di lui.
«Ricordati la montagna di soldi che abbiamo scommesso sul pari».
Nel decimo round mi sembra di colpirlo duro, lui lega.
Dodicesima ripresa. Eccolo, ci sono. La distanza è quella giusta.
Dall’angolo arriva un urlo, un consiglio, un’invocazione, una preghiera.
«Adesso, Stanley! Adesso!»
Willy si è dimenticato del mondo, dei patti, degli accordi. Adesso anche lui vuole vincere. E questo mi eccita. Sento una forza nuova che entra dentro di me, mi sembra di essere più forte. Ho l’illusione di essere grande quanto lui, di potermela giocare almeno alla pari.
Ci provo, sto per vivere i trenta secondi che potrebbero cambiare il futuro. Tiro il mio colpo preferito, quello che mi ha regalato il titolo mondiale dei pesi medi. Il pugno parte dal basso con il guantone che è quasi all’altezza dell’anca destra e finisce la sua corsa sull’asse temporale appena dietro l’orecchio sinistro di Jack Johnson. Metto dentro tutto il peso del corpo, la rabbia accumulata in anni di umiliazioni, la voglia di dare una svolta definitiva alla mia esistenza.
Ce la faccio, lo metto giù! Sì, lo metto giù. Lo metto giù, lo metto giù!
Lo chiamano “shift punch”, un pugno che cambia direzione. Lui lo chiamerà “spione”, traditore fino al punto da sembrare una cosa per poi diventarne un’altra. La traiettoria è subdola, nasce da un punto invisibile e si chiude quando ha ormai assunto tutte le caratteristiche di un pugno a mezza via tra il diretto e il gancio. Sorpende e fulmina.
Jack Johnson, il campione del mondo dei pesi massimi è al tappeto. A mandarcelo sono stato io, un uomo di dodici centimetri e diciassette chili più piccolo di lui.
Johnson è giù, una botta secca e lui è finito seduto su quell’ingombrante culone nero. Il suono del corpo che va al tappeto è una musica che mi eccita, mi regala quasi un orgasmo. La gente impazzisce, urla il mio nome, grida la rabbia contro quel gigante che ha preso in giro il mondo. I bianchi attorno al ring sono tanti e tifano tutti per me.
Jack ha preso i loro soldi e le loro donne, la grande rivincita è arrivata.
Il Negro è knock down.
L’unico a non farsi illusioni sono io.
Lo guardo negli occhi e vedo che non c’è rassegnazione o paura, ma solo furore. Poggia le mani sul tappeto, fa perno sul ginocchio destro e si gira molto lentamente.
Si rialza.
È pronto a uccidermi.
Lo so. Lo vedo. Lo sento.
L’arbitro è Jack Welsh ed è vestito come se dovesse andare a un party, con tanto di cravatta e gilet. Quando Welsh arriva a sei, Johnson è in piedi deciso a riprendere velocemente il combattimento. Mi fissa, ripetendo più volte nella testa la stessa domanda.
“Come hai potuto farmi questo?”
Penso di avere un’unica possibilità per scendere dal ring col titolo in tasca, quella di rischiare la vita. E devo farlo adesso. Devo colpirlo ancora una volta, prima che recuperi totalmente le forze.
Mi lancio verso di lui come una belva impazzita.
Errore da principiante, lo pago caro.
Mi ferma con un gancio destro. È come se avessi sbattuto contro un muro, come se un treno mi avesse appena investito.
Un sinistro corto completa l’opera. La violenza del colpo è tale che Jack vola sopra di me, mi scavalca e finisce anche lui al tappeto. Ma si rialza in un attimo. Io invece me ne sto lì con le braccia larghe e le gambe divaricate. Sembro un uomo in croce. Nella testa sento mille rumori, negli occhi ho solo sangue. Non vedo e non sento.
È giunta la mia ora, morirò prima che l’arbitro abbia contato fino a otto. Niente è gratis nella boxe, eccetto il dolore.
Quando riprendo conoscenza, lui è appoggiato alle corde e sta spazzando via qualcosa dal guantone destro. Sono tre dei miei denti. Ho perso anche quelli assieme al match e al sogno di diventare campione dei pesi massimi.
Svengo di nuovo.
Johnson non vuole lasciare il ring. Teme che la gente possa scagliarsi contro di lui.
«Fino a quando non avrò la certezza che quello non è morto, io non mi muoverò da qui».
Quello, sarei io.
Dicono che ci siano voluti dieci minuti per farmi riprendere totalmente conoscenza e convincere Jack a tornare negli spogliatoi.
Vivo quel lasso di tempo in uno stato di rimbambimento. Sento le urla attutite della folla, come se quei rumori venissero da molto lontano. Ascolto le parole del negro prima che sparisca nello spogliatoio.
«È andata bene, pensavo di averlo ucciso».
Mi sembra di sentire Willie Britt che invoca il mio nome.
L’Arena di Colma sparisce lentamente dalla mente e dagli occhi. Per sei secondi ho realizzato il sogno di tutti.
Ora voglio solo dormire.