Geppino mi chiamava ‘a capera.
La prima volta che l’ha fatto l’ho guardato fisso negli occhi, che poi non riuscivo proprio a vedere dal momento che erano nascosti dagli immancabili occhiali con lenti scure e spesse. Avevo un grande punto di domanda disegnato sulla faccia.
Cioè?
Lui con quel sorriso ironico che l’accompagnava ovunque mi ha risposto accentuando volutamente la calata napoletana.
“’a capera, ‘a parrucchiera. Quelle signore che andavano a fare i capelli a casa delle clienti. Brave nel loro mestiere, ma anche e soprattutto nel raccontare i segreti delle altre clienti. Solo che tu lo fai sul giornale, con te è impossibile tenere un segreto”.
Ero in sintonia con Geppino e quando in un inizio pomeriggio di fine luglio dell’80 sono andato a trovarlo, mi ha accolto in casa, mi ha offerto il pranzo e mi ha raccontato cosa fosse per lui il pugilato.
Pochi giorni dopo Patrizio Oliva avrebbe vinto l’oro di Mosca e il mio amico avrebbe celebrato alla grande.
Erano quasti trent’anni che tirava su campioni in una vecchia e malandata palestra al 418 di via Roma, altezza Santo Spirito, a due passi da piazza Dante. Uno scantinato a 10 o 15 metri sotto il livello della strada, una misura che variava a seconda di chi fosse il narratore della storia.
Ci sono entrato in quei locali con le pareti screpolate, l’umidità che ti costringeva a saltare per non mettere i piedi nell’acqua. Erano frequentati da giovani pugili ambiziosi, ma anche da sorece grandi come gatti. E non avevano neppure voglia di allenarsi.
La Fulgor (sopra il raduno di un gruppo di ex atleti nel 2015) era uno di quei miracoli che solo Napoli poteva generare. E per farlo aveva bisogno di persone come Geppino. È stato lui il maestro che ha portato fino alle Olimpiadi gente come Patrizio Oliva, che i Giochi li ha vinti ed è stato premiato anche come miglior pugile del torneo; Salvatore Todisco, argento a Los Angeles ’84 (inizialmente guidato da Nino Camerlingo e poi da Geppino); Agostino Cossia, primo napoletano in azzurro all’Olimpiade: Melbourne ‘56, che è stato sotto la guida di Geppino fino a due anni dai Giochi per poi passare con Camerlingo; Elio Cotena che dal ’62 era sbarcato in quel luogo di dannazione che portava alla gloria.
Geppino sembrava nascondersi dietro quegli occhialoni neri, ti guardava tenendo la testa quasi obliqua, ma quando parlava dovevi stare ad ascoltarlo perché potevi solo imparare.
Ero un giornalista che cercava di crescere, ero diventato professionista da poco. Sono stati incontri come quello con il maestro napoletano ad aiutarmi a capire cosa fosse il mio mestiere, cosa chiedesse il popolo della boxe a chi quello sport lo raccontava.
Un mondiale, sempre con Patrizio; quattro campioni europei: ancora Oliva, Cotena, Ciro De Leva e Alfredo Raininger. Tanti titoli italiani.
Mi sembra di sentire ancora la sua voce, un suono musicale in cui mischiava italiano e napoletano, ironia e satira. Parlava di boxe, quando in realtà parlava della vita.
Finto burbero, a volte però diventava davvero duro fino ad arrivare a non condividere altre scelte di vita e a decidere di soffrire per la separazione con un pugile a cui aveva dato tanto e da cui aveva ricevuto tanto.
Nella grotta della Fulgor c’erano due stanze. Una per gli attrezzi, l’altra per saggiare l’abilità di tutti. Veterani e nuovi arrivati. Lì si è costruita la storia.
Geppino se ne è andato in una brutta giornata di marzo di dieci anni fa. Ancora qualche giorno e avrebbe compiuto 81 anni. Mi è tornato ancora una volta alla mente quando ho letto su Facebook, postata dal figlio Lino che fa il suo stesso mestiere, la notizia del Memorial a lui dedicato che si terrà il 23 di questo mese in Piazza Dante (sopra la locandina della manifestazione dello scorso anno).
E allora mi è sembrato di risentire la sua voce.
“Attenti, è arrivata ‘a capera. Bocche chiuse che finiamo sui giornali” e giù una risata a sottolineare l’affetto che si nascondeva in quella frase.
Dieci anni fa se ne è andato un grande uomo di boxe.
Chiedo scusa in anticipo se lungo il cammino di questo racconto ho lasciato per strada qualche nome, tutto quello che di buono c’è in questa storia è merito di Geppino Silvestri, solo gli errori mi appartengono.
ha dimenticato il secondo ‘maestro Fluato’. in tanti anni mai mancato una volta, veniva da Ponticelli e sarebbe stato di anche di domenica se la palestra fosse stata aperta.