Hurricane ha lottato tutta la vita. Dentro e fuori dal ring…

Rubin Carter nasceva ottant’anni fa, il 6 maggio 1937.
Moriva il 20 aprile 2014. Vi ripropongo il racconto della sua storia.

17 giugno del ’66, 2:40 del mattino.
Il Lafayette Bar and Grill è un locale senza infamia e senza lode sulla East 18th Street di Paterson, New Jersey, una cittadina attraversata da strade polverose e da una noia continua.
All’interno quattro persone si scambiano le ultime chiacchiere in attesa della chiusura.
E’ stata una giornata carica di tensione.
Nel pomeriggio Frank Conforti ha ucciso con un colpo di pistola Leroy Holloway, il proprietario di un altro bar.
Conforti è bianco, Holloway era un afro americano.
Nell’aria c’è una forte carica di rabbia razzista.

bar11

Il Lafayette Bar and Grill è a Riverside, una zona in cui i bianchi sono la maggioranza.

Due neri entrano (freccia A nella foto sopra) sbattendo la porta. Il più piccolo imbraccia una doppietta, l’altro impugna un revolver calibro .32.

James Oliver (numero 4) ha 51 anni. E’ il barista, ha una quota nella gestione del locale. Sta contando lentamente i soldi dell’incasso. Come fa ogni sera, una routine che chiude tutte le giornate, ognuna simile a quella che l’ha preceduta.
James li vede e lascia cadere le banconote che lentamente scivolano a terra. Istintivamente cerca di difendersi, afferra una bottiglia vuota di birra e la lancia sbilenca verso i due uomini.Li manca , il vetro si frantuma contro il condizionatore dell’aria. A quel punto pensa di scappare, non fa neppure due passi che un proiettile lo raggiunge alla parte bassa della schiena trapassando il midollo spinale. Cade a terra dietro il bancone, morto.

L’uomo con il revolver spara un colpo che centra Fred “Cedar Grove Bob” Nauyoks (numero 3), 60 anni, alla testa. Poi si gira e colpisce William Marins (numero 2), 42 anni, alla tempia sinistra. Il proiettile passa la cavità orbitale rendendo immediatamente cieco l’occhio sinistro.
Per Nauyoks il buio scende improvviso sulla sua vita, cada a faccia in avanti sul bancone. Sembra stia dormendo. E’ morto sul colpo, il braccio sinistro appoggiato oltre il bar, la sigaretta ancora accesa fra le dita della mano destra.

Marins, cieco da un occhio e con il cranio fracassato, attraversa il bar barcollando. Finisce a terra. Si finge morto. I due neri stanno per scappare quando si accorgono della donna. Hazel Tanis (numero 1), 51 anni, è una cameriera che ha da poco finito il turno di lavoro. Si era fermata per bere qualcosa e scambiare due parole con l’amico Oliver. E’ seduta d’angolo, in fondo al bar. Appena si accorge di essere stata scoperta, comincia a urlare. I due criminali fanno fuoco. Cinque proiettili calibro .32 centrano gola, stomaco, intestino, milza e polmone sinistro dell’infermiera. Ha il braccio frantumato dai pallini da caccia sparati dalla doppietta. Cade a terra.

I due assassini escono sulla East 18th Street, arrivano all’angolo con Lafayette e girano a destra. Lì, dove hanno parcheggiato la loro Dodge bianca. Gridano, ridono. Venti metri più in là c’è Alfred Bello, bianco, un criminale di lungo corso. Bello scappa, aspetta che i due salgano in macchina e filino via. Poi torna indietro, entra nel bar, apre la cassa e ruba sessantadue dollari che dà all’amico Arthur Bradley che lo aspetta fuori. Solo dopo avere messo in salvo i soldi rubai, rientra nel bar e chiama la polizia.

Hazel Tanis morirà in ospedale un mese dopo.

Questa la scena del triplo omicidio in base alla ricostruzione fatta dalla polizia e pubblicata nel 1975 da The Herald-News.

giornale

Per questi tre delitti vengono condannati all’ergastolo due neri: James Artis e Rubin Carter (nella foto sopra The Morning News pubblica la notizia).

Il primo processo è affidato a una giuria tutta bianca, bianco è anche il procuratore. La Corte Suprema ribalta il verdetto, i due uomini sono messi in libertà sotto cauzione. Il secondo processo li condanna nuovamente. La US District Court presieduta dal giudice H. Lee Sarokin rimette in libertà Artis e Carter perché l’ultimo verdetto a suo parere era “fondato sul razzismo piuttosto che sulla ragione, sull’accanimento piuttosto che sull’accertamento della verità.”

Rubin Carter esce di prigione e si trasferisce in Canada, a Toronto (le foto dei suoi match: sopra contro Joey Giardiello, sotto contro Dick Tiger e Florentino Fernandez).

E’ lui il protagonista di questa vicenda. Buon peso medio, soprannominato Hurricane per il modo aggressivo e furioso di stare sul ring, arriva a giocarsi il mondiale contro Joey Giardiello nel momento di massimo splendore: il 1964. Perde ai punti quel match valido per il titolo unificato dei medi disputato alla Convention Hall di Filadelfia.

Quando scoppia il caso del triplice omicidio, quando i processi lasciano dei dubbi nelle coscienze dei liberal americani, una forte campagna di solidarietà si diffonde per tutti gli States.

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Bob Dylan (foto sopra) incontra Carter nella Trenton State Prison. Gli dedica una canzone piena di potenza e poesia. E la canta proprio lì, all’interno del carcere. È il 1975.

Colpi di pistola risuonano nel bar notturno
entra Patty Valentine dal ballatoio
vede il barista in una pozza di sangue
grida “Mio Dio! Li hanno uccisi tutti!”
Ecco la storia di “Hurricane”
l’uomo che le autorità incolparono
per qualcosa che non aveva mai fatto
lo misero in prigione ma un tempo
egli sarebbe potuto diventare
il campione del mondo

 

Nel 1999 girano un film su questa storia. Denzel Washington interpreta il ruolo di Rubin Carter e si guadagna una nomination all’Oscar del 2000 come attore protagonista. Gran parte dell’opinione pubblica si schiera con l’ex pugile, il World Boxing Council gli dona una cintura da campione del mondo, due università negli States e in Australia gli danno la laurea in legge honoris causa. Poi, pian piano Hurricane scivola via dalle prime pagine, dai racconti dei vecchi attorno a una bottiglia di whiskey, dalle chiacchiere degli ex pugili, dalle discussioni tra uomini della mala.

Gli ultimi anni di vita li trascorre a Toronto, lavorando per un’associazione benefica a favore delle persone condannate ingiustamente. Si impegna sul caso di David McCallum, trent’anni in carcere per sequestro di persona e omicidio. L’analisi del Dna avrebbe dimostrato che il sangue e ogni altra traccia di presenza umana sul luogo del delitto non appartengono al condannato. Per farsi sentire Carter scrive una lettera al Daily News. È stato a quel punto che il fantasma di Hurricane ricompare in pubblico.
E l’uomo che vediamo non è più quello che avevamo imparato a conoscere.

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Al meglio della forma Rubin Carter pesava 72 chili e mezzo. Nei suoi ultimi giorni, come rivela il quotidiano di New York, fatica ad arrivare a 40. Nel giugno del 2011 gli viene diagnosticato un cancro alla prostata, i dottori gli danno dai 90 giorni ai sei mesi come aspettativa di vita.

Ridotto l’ombra di se stesso, Carter continua a lavorare. Non lascia mai la casa di Toronto. Seduto davani alla sua scrivania, scrive appelli, lettere, richieste d’aiuto. Gli sono accanto solo due persone.

James Artis, l’altro uomo finito in galera per l’omicidio di Paterson, e Fred Hogan. Un detective a riposo, l’investigatore che è riuscito a ottenere la ritrattazione dai due testimoni chiave nella causa contro i due imputati per il triplice assassinio del bar.

Rubin ha 76 anni e ammette di “essere un uomo con un passato difficile”, ma aggiunge: “non sono mai stato un santo, ma giuro di non avere mai ucciso nessuno.

Uomo morto che cammina. Così chiamano gli inquilini del braccio della morte. Secondo i medici Hurricane avrebbe dovuto lasciarci, nella più ottimistica delle previsioni, nel dicembre del 2011. Ha lottato fino al 20 aprile 2014, poi è stato costretto ad arrendersi al nemico che nessuno di noi può sconfiggere. La morte.

Ho una missione da portare a termine, dare giustizia a David McCallum. Poi me ne andrò in pace” amava ripetere.

Non so cosa sia accaduto quella notte di giugno del 1966 all’interno di un bar di Paterson. In quel locale, costruito in una strada piatta e brutta, sono state uccise tre persone. Due testimoni hanno mentito, due uomini sono stati condannati e poi assolti, persone di legge non hanno fatto bene il loro lavoro accecati da un insano razzismo. Tutti hanno contribuito a lasciare intatto il mistero.

Un giudice ha sentenziato: le condanne sono state dettate dal razzismo più che dalla ragione.

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Rubin Hurricane Carter ha lottato come aveva sempre fatto nella vita. Contro il cancro, contro le ingiustizie, non della legge ma degli uomini. Aveva ormai superato anche quel 16° round che dava il titolo all’autobiografia (“Da sfidante numero 1 a numero 45472”, il sottotilo). Era in overtime, ma continuava a tenere testa anche a un avversario spietato e potente come il cancro. Aveva una missione da compiere ed era convinto che prima di cedere sarebbe riuscito ancora una volta ad alzare le braccia al cielo in segno di vittoria.

Non ce l’ha fatta.

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