Trentanove anni fa Monzon affrontava Valdez in quello che sarebbe stato l’ultimo match della carriera. Una sfida fatta di pugni, lacrime, sangue e amore.
Il destro di Rodrigo Valdez era arrivato secco e traditore nel corso della seconda ripresa. All’inizio sembrava solo un serpente che strusciava sopra il sinistro proteso del campione. Sembrava un colpo lento, non letale. E invece era arrivato veloce come un fulmine, aveva anticipato il destro di Monzon e quando aveva centrato il mento non aveva lasciato all’argentino neppure il tempo di pensare.
Era il 30 luglio del 1977, il ring era quello dello Stadio Louis II di Monaco, nel Principato di Montecarlo.
Rodrigo Valdez era un colombiano di Cartagena de Indias. Capelli ricci e folti, naso schiacciato, labbra carnose, fronte alta e sguardo triste.
“El gran problema fue que, cuando Valdez me tiró, vi la piña, pero no tuve la rapidez de reflejos como para evitarla. Y después, cuando me vi la cara en los vestuarios y me vi lastimado, me dije a mi mismo que a Monzón nadie lo lastimaba. Y por eso me fui”. Il colpo lo aveva visto partire, ma non era stato abbastanza rapido da evitarlo e quando si era specchiato nello spogliatoio aveva visto una faccia segnata dai pugni del rivale. Non avrebbe permesso più a nessuno di ridurlo così.
Monzon aveva toccato per un attimo il tappeto con il ginocchio, per fermare la caduta si era piegato in avanti e aveva poggiato leggermente i guantoni a terra. Voleva tirarsi su il più in fretta possibile. Il diretto destro di Rodrigo “Rocky” Valdez lo aveva svegliato, scosso. Ma soprattutto, lo aveva fatto imbestialire. Urlavano tutti nell’arena. Quelli di bordo ring sembrava volessero salire anche loro lassù, a picchiare o a essere picchiati.
“Stendilo Rocky, metti giù quella bestia argentina!”
“Dai Rocky, picchialo. Non fermarti, picchialo a sangue!”
Meno di due secondi e Carlos Monzon era di nuovo in piedi, pronto a rituffarsi nella lotta. Il sinistro riprendeva a fare il suo lavoro. Bum, bum, bum. Solo jab, ma pesanti come macigni.
Alla vigilia del mondiale medi Valdez aveva cercato di isolarsi, non voleva distrazioni. Sentirsi così vicino al momento in cui qualsiasi miracolo poteva esser realizzato lo aveva però reso più vulnerabile, meno diffidente. E in una bella serata d’estate si era lasciato andare.
“Ero piccolo, vivevo ancora a Cartagena, in Colombia. Ero un bambino, ma già andavo a pescare al largo con quelli più grandi. Avevo imparato a convivere con il vento, la furia del mare, anche i tifoni facevano ormai parte della mia vita. Per pescare usavamo la dinamite. Un gran botto e poi tutti noi dovevamo muoverci con grande velocità per raccattare quanto più pesce possibile, prima che arrivassero gli scafi della polizia portuale. Non avevo paura di essere scoperto. Non avevo paura di lottare per tenere lontani gli squali, figuratevi se potevano spaventarmi quei signori in divisa. Come potrei avere paura oggi di un altro pugile che può usare solo le mie stesse armi? Era dura a quei tempi, per molti lo è ancora oggi. I bambini giocavano in strade di fango, erano scalzi e denutriti, si muovevano in mezzo a topi, cani randagi e maiali. Imparavi presto che se volevi sopravvivere, dovevi batterti. Poi, a 16 anni, dopo mesi di boxe a pugni nudi sulla spiaggia, mi hanno offerto sette pesos per un match vero, contro un vero pugile. Ho fatto salti di gioia e ho cominciato a correre con la fantasia. Sono stati tre round di battaglia selvaggia, alla fine è arrivata la vittoria. Quell’incontro ha rappresentato l’inizio di una nuova vita”.
Il mare gli aveva dato da mangiare nei giorni della povertà, ma gli aveva anche portavo via il papà. Uscito per una battuta di pesca e mai più tornato. Un ricordo straziante aveva accompagnato l’intera vita di un ragazzo che era stato costretto a crescere troppo in fretta. E quell’espressione eternamente triste del viso era lì a testimoniare che non avrebbe mai dimenticato.
Le mani del colombiano erano leggere, nervose, elettriche. E avevano appena mandato al tappeto il campione del mondo. Ora doveva solo chiudere la storia nel minor tempo possibile.
Ma il sinistro di Monzon aveva ricominciato a fare disastri. Era un belva Carlos. Quei diretti facevano così male. Martellavano il volto di Rocky. Dopo cinque round la faccia del colombiano era una maschera di sangue, sembrava che un aggressore pazzo lo avesse preso a rasoiate. La ferita appena sopra l’occhio sinistro era grande e slabbrata. Era proprio quello il pericolo maggiore, a fine match sarebbero stati necessari dieci punti di sutura per chiudere lo spacco.
“Stai andando bene Carlos. Continua così, tienilo lontano col sinistro. Fagli sentire la pesantezza del jab. Il destro mettilo dentro solo quando sei sicuro”.
“Amilcar, la mano mi fa male”
“Il sinistro Carlos, poi se lui si scopre piazza anche il destro”
Valdez nel settimo e ottavo tempo si era ripreso e lo aveva messo in difficoltà. Era necessario che il diretto destro del campione ricominciasse a fare per intero il proprio lavoro. E così era stato. Due riprese di autentica punizione per lo sfidante, soprattutto la decima in cui era stato sballottato da una parte all’altra del ring.
Dopo il gong, Carlos Monzon si era trascinato lentamente verso l’angolo. Strusciava le scarpette sul tappeto, ma aveva il busto eretto. Non doveva offrire alcun vantaggio all’altro. Appena seduto sullo sgabello aveva parlato con Amilcar Brusa.
“Mi sono rotto la mano destra, non so se riuscirò più ad usarla”
“La destra non ti serve, ti basta continuare a centrarlo col sinistro”
“Ti ho detto che mi fa male!”
“E io ti ho detto che puoi batterlo con una mano sola”
Anche all’altro angolo la situazione non era poi così tranquilla.
“Gil, non vedo. Come sta il mio occhio?”
“Rodrigo, l’occhio è messo male, devi provarci”
Gil Clancy sapeva che il tempo per recuperare era poco. Aveva fatto un miracolo con la ferita, ora non sanguinava più. Rodrigo Valdez poteva provare a vincere. L’altalena non aveva fine, il colombiano tornava a sperare. Ma Carlos era un macho vero. Se era necessario soffrire, l’avrebbe fatto.
L’ultima ripresa era una sfida senza più regole. Quando il gong chiudeva il match, entrambi alzavano le braccia convinti di meritare il trionfo.
L’annunciatore avvicinava il microfono alla bocca. Poi, lentamente, leggeva il verdetto.
“I cartellini. Roland Darkin, arbitro e giudice, 144-141 per Monzon; Kurt Halbach 147-144 per Monzon; Mario Poletti 145-143 per Monzon. Vince, con decisione unanime, e resta campione del mondo per il World Boxing Council e la World Boxing Association, Carlos Monzon”.
L’argentino non ce la faceva neppure a esultare. Si appoggiava alle corde e chiamava a gran voce Tito Lectoure che sedeva nelle prime file di bordo ring.
“Ahora sì, Tito.. Nunca mas… Esta fue mi ultima pelea”.
Monzon rientrava velocemente nello spogliatoio, si guardava allo specchio e vedeva qualcosa che non gli piaceva. Le ferite, il viso gonfio. Non era mai andato così vicino alla sconfitta. E questo proprio non riusciva a sopportarlo.
Abel aveva undici anni. Era entrato lentamente nello spogliatoio, si era avvicinato al lettino dove il papà era steso in cerca di un minimo recupero.
“Quando sei andato al tappeto ho pianto”
“Nella vita ognuno di noi può finire giù più di una volta, l’importante è che sia sempre in grado di rialzarsi”
E con quella frase pensava di aver chiuso la questione. Aveva appena spiegato ad Abel come come doveva comportarsi un vero uomo. Ma il ragazzo insisteva.
“Dimmelo papà”
“Cosa?”
“Che non combatterai più”
“Abel, nunca mas… Esta fue mi ultima pelea”
(da “Monzon, il professionista della violenza” di Riccardo Romani e Dario Torromeo. Edizioni Absolutely Free. In libreria e nei maggiori siti di distribuzione online. Disponibile anche in eBook)