IL SUO nome è Ronda, Ronda Rousey.
È imbattuta dopo undici combattimenti, nove vinti per sottomissione e due per knock out. È la regina dell’MMA (Mixed Martial Arts) e della sua più potente organizzazione, l’Ultimate Fighting Championship. Si affrontano all’interno di un gabbia e se le danno di santa ragione. L’ultimo match, contro Cat Zingano un’altra senza sconfitte, l’hanno trasmesso in pay per view.
Lei è sulle prime pagine dei giornali. Ha posato nuda per ESPN Magazine e Maxim, è nel numero in edicola di Sports Illustrated, quello dedicato ai costumi da bagno. Ha fatto l’attrice in tre film, ha contratti con quattro sponsor importanti tra cui la Reebok. Ha regalato alle donne popolarità anche in uno sport tipicamente maschilista come l’MMA. Era già una diva, ma quando sabato scorso ha messo via in quattordici secondi una come Cat Zingano, la gente è impazzita.
L’hanno paragonata a Mike Tyson.
“Non ci sono dubbi. È la sua versione femminile. Ci sono poche situazioni in cui la gente paga il biglietto e anche se il match dura appena 14 secondi tutti saltano in piedi e applaudono, invocano il suo nome ed escono dall’arena felici per quello che hanno visto.”
Il presidente dell’MMA, Dana White, fa il suo lavoro. Ma ci sono alcune verità in quel che dice. La presa popolare soprattutto.
E poi Ronda, come Iron Mike, ha un’incredibile storia alle spalle.
Da piccola faticava a parlare. Le sue sorelle più grandi erano state tutte molto più veloci di lei. Ma Ron, il papà, non si preoccupava.
“È una dormigliona, quando si sveglierà vincere le Olimpiadi e diventerà famosa.”
Così ogni mattina alle 3 la svegliava e la portava a nuotare. Non era proprio una meraviglia per la piccola, anche perché all’epoca vivevano a Jameson in Nord Dakota dove la temperatura d’inverno scende sotto i 50°!
Ma questo fare sport assieme aveva legato un legame profono tra Ron e Ronda. Andavano spesso a divertirsi sulla neve, fino a quando un maledetto inverno la slitta del papà non si è capovolta e la schiena è andata in pezzi. Ricovero d’urgenza in elicottero nel più vicino ospedale, recupero lento e difficile, reso ancora più complicato da una rara malattia come la sindrome Bernard Soulier. I medici non avevano nascosto la verità. A Ron restavano al massimo due anni di vita.
Non aveva resistito. Aveva guidato fino al laghetto dove nei giorni di primavera si divertiva con Ronda, aveva inserito il tubo a copertura dello scarico dei gas del motore, aveva messo in moto la macchina e se ne era andato in silenzio. Per sempre.
La ragazzina era piombata in una profonda depressione. Aveva otto anni e ancora faticava a mettere in piedi un discorso. La famiglia si era trasferita nel sud della California. A badare alle quattro ragazze di casa c’era Anna Maria De Mars, campionessa del mondo di judo nel 1984. La signora pensava che lo sport potesse dare una mano anche sotto il profilo psicologico. Aveva insistito e alla fine Ronda aveva lasciato il nuoto, che le ricordava troppo il papà, e si era dedicata anche lei al judo.
Nel 2004 era ad Atene, nella squadra olimpica americana. Aveva solo 17 anni. Combatteva al limite dei 63 kg. Praticamente digiunava in continuazione. Era tornata dalla Grecia piena di problemi e aveva cercato rifugio nel cibo. Per due stagioni aveva lottato contro la bulimia. Il passaggio nei 70 chili l’aveva tirata fuori dai guai.
Ma Ronda non ha mai avuto un carattere facile. Durante uno torneo in Germania nel 2005 il coach l’aveva trovata in stanza con il fidanzato proprio nel momento in cui sarebbe dovuta essere al meeting tecnico. Espulsa dalla nazionale, rimproverata duramente dalla mamma al ritorno in California.
Ribelle per natura, aveva fatto le valigie e se ne era andata ad Albany, nello stato di New York, a casa di un’amica.
Era poi passata per Chicago e Montreal, facendo vita comune con il ragazzo.
L’Olimpiade di Pechino, nel 2008, aveva segnato la grande svolta.
Bronzo nei 70 kg, la prima americana ad andare a medaglia nel judo ai Giochi.
Bisognava far fruttare quel risultato. La via migliore, aveva subito pensato l’esuberante Ronda, era quella che portava alle arti marziali.
Talento, forza, abilità. Le doti per imporsi le aveva, poco le interessava che gli altri le sconsigliassero di misurarsi in uno sport che ritenevano pericoloso.
“È proprio per questo che mi piace”, ci scherzava su.
Ronda ha qualcosa che a molte mancava. Il carisma per diventare un personaggio e uscire dai confini dell’MMA, dello sport, e diventare una protagonista in assoluto.
Parla senza preoccuparsi di non toccare la suscettibilità delle avversarie o dell’ambiente. Si propone nel ruolo di provocatrice. Poi quando comincia la lotta, alle parole fa seguire i fatti. Sempre.
Ora vive a Venice, Los Angeles. È tra i personaggi più noti dello sport americano. Bob Arum, il mega boss della Top Rank, l’ha invitata a bordo ring per il match tra Floyd Mayweather jr e Manny Pacquiao del 2 maggio. Ronda ci sarà, seduta accanto alle stelle dello sport e dello spettacolo.
La bambina che faticava a mettere assieme una frase, la ragazzina che è stata traumatizzata dal suicidio del papà, l’adolescente che ha lottato contro la bulimia, la diciassettenne che è scappati di casa. Tutte queste personalità convivono ora nella stessa donna. A 28 anni da poco compiuti Ronda Rousey ha realizzato il sogno di Ron. Ha vinto una medaglia olimpica ed è diventata famosa.
Un motivo in più per sorridere.
Paragonare Ronda al Tyson dei tempi d’oro è veramente ridicolo…
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Ha regalato alle donne popolarità anche in uno sport tipicamente maschilista come l’MMA.
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Dario, l’MMA non è uno sport “maschilista”, bensì uno sport MASCHILE.
Ti rammento che tutti gli sport esistenti sul pianeta Terra sono stati inventati da uomini e non da donne.
Tra l’altro nessuno vieta alle donne di inventare qualche sport, tantomeno di creare una propria federazione…
Il paragone è di Dana White, presidente della MMA, non mio.
Anche il tuo commento mi sembra decisamente maschilista, ma è una questione di opinioni.