Diego Armando Maradona ha scritto la storia del calcio, il suo sinistro ci ha regalato autentici capolavori. Il regista Paolo Sorrentino lo ha ufficialmente omaggiato nella notte degli Oscar a Los Angeles. Sul campo è stato un fenomeno. Nella vita ha spesso peccato, come hanno fatto altri grandi calciatori, musicisti, pittori, scrittori, fenomeni di ogni genere a cui è stato concesso di vivere il momento della loro arte senza macchiarlo con il buio degli errori. Credo sia giusto dare questo privilegio anche al Pibe. Le brutture della sua vita non possono impedirci di conservare i ricordi delle magie e delle emozioni che ha saputo regalare ai nostri occhi quando aveva come fedele compagno un pallone.
ESCLUSO con rimpianto nel 1978, deluso nel 1982, finalmente nel 1986 Diego Armando Maradona aveva vinto il suo titolo.
Era diventato campione con un’Argentina che schierava questi titolari: Pumpido, Cuciuffo, Olarticoechea, Brown, Ruggeri, Batista, Burruchaga, Giusti, Valdano, Maradona, Enrique.
Il segno su quei Mondiali era tutto suo. L’aveva lasciato nella sfida all’Inghilterra. Prima con la “la mano di Dio”, poi con l’infinita corsa palla al piede verso la porta di Shilton (foto sotto). Cinque giocatori saltati con movenze da ballerino, talento d’artista e capacità di incantare come solo i grandi uomini di spettacolo riesco a fare. Anche i difensori inglesi sembravano esserne affascinati. A qualcuno di loro era sembrato un fantastma, un folletto imprendibile. Andavano per randellarlo e si trovavano a colpire l’aria. Il gol più bello nella storia dei Mondiali. Quello che rimarrà per sempre nei nostri occhi.
Ma come molti campioni dello sport e dell’arte Diego Armando Maradona ha peccato.
Anche questi ricordi fanno parte della sua storia.
LA TELEFONATA a Gigi Pavarese, il direttore sportivo di quei tempi, non annunciava aria di tempesta.
“Scordati tutto, ma non dimenticarti la telecamera. Voglio riprendere la Piazza Rossa.”
Era la mezzanotte di una domenica senza partite, la Nazionale aveva dettato un turno di riposo al campionato. Diero era convinto di partire per Mosca. Il giorno dopo, lunedì 5 novembre 1990, all’aeroporto c’erano tutti. Mancava solo Maradona.
Giocatori, dirigenti e giornalisti avevano già in tasca la carta d’imbarco, ma da Diego non erano ancora arrivati segnali.
Il Napoli voleva provarci sino in fondo. La partita di andata contro lo Spartak Mosca era finita 0-0, c’era la possibilità di passare il turno.
Luciano Moggi era il direttore generale di quella squadra. Era arrivato sino in via Scipione Capece. Non l’avevano fatto neppure entrare in casa. Ci avevano provato i grandi amici di Diego. Parlo di Ciro Ferrara, Fernando Di Napoli, Massimo Crippa. Li aveva accolti Claudia Villafane.
“Non lo potete neppure vedere.”
Lui era nella stanza accanto, in quella che era la sede della Maradona Production. I tre erano tornati di corsa verso l’aeroporto. Il volo era decollato con due ore di ritardo.
El Pibe si era presentato a Mosca nella serata di martedì dopo avere noleggiato un aerotaxi pagandolo trenta milioni di lire. Era sceso all’Hotel Savoy.
A mezzanotte aveva espresso un desiderio.
“Voglio vedere la Piazza Rossa.”
Era chiusa, recintata e protetta dai soldati. Si preparava ad ospitare la celebrazione dell’ottantesimo anniversario della rivoluqione bolscevìca. Ma lui era Diego Armando Maradona.
I soldati gli avevano aperto uno spiraglio della recinzione, l’avevano fatto entrare. Aveva così potuto riprendere nella notte moscovita la magia della Piazza.
Era stata l’unica gioia di quell’avventura. Diego era andato in panchina, aveva giocato solo uno spezzone di partita, aveva fatto un passaggio al bacio per Incocciati che non era però riuscito a fare gol, aveva realizzato il suo calcio di rigore nella serie che deoveva designare ilvincitore del turno eliminatorio, era uscito dalla Coppa Campioni.
Ora il re era nudo e il mondo sapeva quanto grosso fosse il suo vizio.
LA DROGA l’aveva incontrata nel lusso della villa di Pedralbes a Barcellona. A Napoli aveva continuato la discesa all’inferno.
Era stato punito due volte per positività all’antidoping: cocaina nella parita del 17 marzo 1991 contro il Bari, efedrina in Argentina-Nigeria del Mondiale Usa 1994: un doping “dell’età della pietra.” Un infernale miscuglio.
Poi erano arrivati l’alcol e un’alimentazione senza freni che l’aveva portato a pesare 140 chili (foto sopra), gli aveva rovinato cuore e polmoni. Aveva risvegliato l’epatite cronica contratta a Barcellona.
Erano seguiti i ricoveri in ospedale, le operazioni, addirittura il coma del 4 gennaio 2000 a Punta del Este in Uruguay. La paura di morire.
Solo come può esserlo un tossicodipendente, anche se accanto aveva la famiglia, Diego si faceva accompagnare da un altro peccato grave. Era ricco e popolare. Per questo il vizio non l’abbandonava mai, era diventato il compagno più fedele della sua vita.
Il santo peccatore veniva celebrato in campo e accompaganto verso la distruzione quando usciva dallo stadio. Sfatto, obeso, incapace di gestirsi, con il cuore di un’ottantene e il fisico che aveva assunto dimensioni inquietanti.
Era sull’orlo del precipizio. Vittima e carnefice. Faceva male soprattutto a se stesso, ma colpiva anche chi gli voleva bene.
Poi, come se non bastassero quelli che aveva, erano arrivati altri guai. L’evasione fiscale, gli interessi che galoppavano veloci. In mezzo gli insulti a mezzo mondo Pelè compreso, gli spari ai giornalisti, l’operazione alla bocca per colpa del morso di un cane. Anche lui ce l’aveva con Diego.
E ultima botta con le foto con Carmine Giuliano boss della camorra a Forcella. Maradona ha sempre negato di avere legami con il clan. Anche se aveva ammesso di avere ricevuto dei regali. Rolex d’oro, addirittura una Volvo 900 appena uscita sul mercato. Diceva che in cambio gli chiedevano solo di farsi fotografare al loro fianco, magari sdraiati su una vasca da bagno a forma di conchiglia.
Diego camminava su un filo sospeso sopra un burrone. Ragionava di pancia. Era perso, dannato, irriconoscibile.
Ed erano tutti lì a domandargli perché facesse loro del male. Vedere l’idolo rotolare all’indietro aveva trasformato i suoi tifosi in creditori. Avevano investiti in sentimenti e ora si sentivano traditi.
Pochi pensavano al suo dramma, alla vita ai confini della tragedia in cui si era cacciato. Poi con und dribbling dei suoi riusciva a ritrovare la luce.
“Sono sei anni che non mi drogo” diceva alla vigilia del Mondiale in Sudafrica nel 2010 in un’intervista alla televisione argentina.
Poco tempo prima si era sentito a un passo dalla morte.
“Ho visto El Barba.”
Ed era tornato a vivere.
Eccessivo come sempre nelle sue mainifestazioni era addirittura tornato da protagonista nel calcio. Aveva allenato la nazionale ai Mondiali. Liti, discussioni, accuse. Ma erano eccessi da benedire. Facevano parte della vita.
Come molti campioni del passato, personaggi che crollano sotto il peso dell’amore altrui e dei propri vizi, Diego Armando Maradona ha conosciuto il bene e il male di questo mondo. I giorni della poverà e quelli della ricchezza. Ha attraversato il cammino della vita senza porsi dei limiti. Sesso, droga, alcol, cibo. Tutto e subito, in maniera esagerata.
Non dovrebbe meravigliarsi se continuano ancora a presentargli il conto.
ITALIA ’90 è stato un Mondiale vissuto come un grande tradimento.
Infortunato alla caviglia, era riuscito ugualmente a recitare da protagonista. Da un suo assolo chiuso con un assist per Caniggia era venuta la vittoria sul Brasile negli ottavi. Poi c’era stata la sfida con l’Italia al San Paolo di Napoli, destino beffardo. Non aveva giocato da Maradona, ma non aveva sbagliato il calcio di rigore nella serie che aveva scelto la vincitrice e l’Argentina era volata in finale.
A Roma i tifosi dell’Olimpico avevano fischiato il suo inno nazionale. E Diego, inquadrato in primo piano dalle telecamere li aveva ringraziati a modo suo.
“Hijos de puta”, figli di puttana.
Poi ci aveva pensato l’arbitro messicano Edgardo Codesal Méndez che aveva generosamente punito con il rigore un veniale fallo su Voeller. Brehme non aveva sbagliato la trasformazione.
Maradona aveva chiuso in lacrime, insultando pubblico, dirigenti della Fifa e quelli italiani.
“E’ stata una farsa, ha vinto la mafia.”
Questo e tante altre cose ancora è stato Diego Armando Maradona.
“Il pù grande uomo di spettacolo degli ultimi cinquant’anni” così l’ha definito Paolo Sorrentino in risposta a chi gli chiedeva perché mai avesse dedicato l’Oscar de “La Grande Bellezza” anche a lui. Era un attestato di riconoscenza per le gioie che aveva regalato a lui ed a Napoli con i due scudetti e la Coppa Uefa. Sul campo di calcio era un dio senza rivali. Su questo non credo ci sia qualcuno che possa dissentire.