Sì, io mi ricordo

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MI RICORDO il mondiale medi Hagler-Hearns, Las Vegas 15 aprile 1985.

Ricordo il Meraviglioso che schizza come una pallottola dal suo angolo al suono del primo gong e dà inizio alla guerra.

Ricordo Bertha, sua moglie, che urla senza smettere mai. “Alla testa Marvin, alla testa.”

Ricordo la festa per l’ennesimo matrimonio di Jack LaMotta due giorni prima alle piscine del Caesars Palace. Lui tutto vestito di bianco e minuscolo papillon nero suona un piano a coda e spara battute come una volta sparava pugni.

Ricordo la sua voce. “Una delle mie mogli era una donna davvero strana. Le piaceva fare l’amore sul sedile posteriore della nostra macchina. L’unica cosa che mi chiedeva era di guidare con attenzione.

Ricordo il Cobra che torna all’angolo alla fine del secondo round lanciando uno sguardo di sfida al nemico di una notte. E’ paura.

Ricordo il vento del deserto che ci avvolge in una manto di gelo.

Ricordo il gancio di Hagler che si abbatte come una mannaia su Hearns.

Ricordo gli occhi dell’uomo di Detroit fissi nel vuoto. Aperti, spalancati per guardare in faccia la paura.

Ricordo l’arbitro Richard Steele che lo aiuta a stendersi sul tappeto e il maestro Emanuel Steward che lo accompagna all’angolo.

Ricordo Marvin Hagler che esulta mentre i fratelli Petronelli lo portano in trionfo e la gente urla per liberare rabbia, tensione e paura accomunate in una notte piena di magia.

Sì, io mi ricordo.

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MI RICORDO la finale Goran Ivanisevic-Patrick Rafter, Wimbledon 9  luglio 2001.

Ricordo gli occhi di fuoco di Goran. “Ero fermo, attaccato alla linea di fondo e mi chiedevo: che ci faccio qui? Era come se avessi i piedi nella sabbia. Volevo muovermi, ma non ci riuscivo. I due Goran che erano in me avevano cominciato a litigare, erano entrambi nervosi. Io dicevo: Ragazzi, calmatevi. Ma loro non mi ascoltavano. Sentivo che non sarei uscito vivo da quella situazione. Poi è arrivato il terzo Goran, quello che viene quando ci sono le emergenze, quello col cervello, e ha detto: Ragazzi siamo in un campo meraviglioso, rilassatevi. Tre ace di fila. E’ cominciata in quel momento la mia nuova vita.”

Ricordo la pioggia del giorno prima, l’interminabile fila notturna fuori dallo stadio per comprare i biglietti, le bandiere e le urla dei nuovi tifosi ammessi nel tempio.

Ricordo la faccia triste e allegra di papà Sdrijan mentre abbassa le sopracciglia e stringe il naso verso i suoi baffoni. Sembra voglia scomparire. Ha tre by-pass e i medici gli hanno sconsigliato qualsiasi emozione. Ma lui non ce l’ha fatta a stare lontano da quel Cavallo Pazzo di suo figlio.

Ricordo la calma apparente di Patrick Rafter, il passo da pantera sul verde dell’erba londinese. Il suo serve and volley, la bellezza di un viso senza tempo.

Ricordo Ivanisevic in lacrime che bacia la pallina prima di servire il terzo match-point. Le parla, le chiede di fare il suo dovere.

Ricordo il silenzio dello stadio subito dopo che Rafter annulla lo svantaggio con un pallonetto, subito prima che Goran giochi il quarto match point.

Ricordo l’ultimo servizio del croato, l’errore di Pat, la voce di Ivanisevic: “Non vorrei che qualcuno venisse a svegliarmi per dirmi: ehi, hai perso un’altra volta.

Ricordo Goran Ivanisevic che sale sulle gradinate ad abbracciare il papà per poi piangere assieme lacrime di gioia.

Sì, io mi ricordo.

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MI RICORDO la scarcerazione di Mike Tyson, Plainfield 25 marzo 1995.

Ricordo il freddo che mi gela le ossa, la voce senza emozione della guardia che alle 4:30 del mattino mi chiede perché mai un giornalista italiano sia arrivato laggiù per aspettare “quello lì.”

Ricordo l’incontro del giorno prima con Muhammad Siddwwq, l’uomo che l’ha convertito alla religione islamica.

Ricordo quattro telecamere che riprendono la porta della stanza 606 dell’albergo di Indianapolis dove è stata stuprata Desireé Washington.

Ricordo il portiere che risponde al telefono ripetendo come una triste litania sempre la stessa frase: “No signore, mi dispiace. La stanza 606 non è libera. Ho prenotazioni per almeno un anno.

Ricordo il termometro che segna cinque gradi sotto lo zero, l’alba che spunta e mille reporter che si accalcano dietro il cordone messo lì a frenarne l’esuberanza.

Ricordo Mike Tyson che esce dal carcere in completo nero, camicia bianca e un grosso bottone in argento a chiudere il colletto. Sul capo ha una papalina bianca traforata.

Ricordo Muhammad Ali che lo aspetta nella Moschea mentre centinaia di uomini con passo veloce si avviano verso quell’edificio in mattoni rossi calpestando un grande prato ghiacciato nelle prime ore di un gelido mattino.

Ricordo che vestono abiti neri, lunghi cappotti, candide camice. Hanno capelli e barbe lunghe, incolte.

Ricordo Don King che non riesce a trattenere le sue fragorose risate, lo ricordo mentre tenta invano di inginocchiarsi fingendo di pregare.

Ricordo Tyson che entra in un bireattore Lear da 12 posti e vola verso la libertà.

Sì, io mi ricordo.

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MI RICORDO Francesca Schiavone vincere il Roland Garros, Parigi 5 giugno 2010.

Ricordo questa piccola donna che si rotola sul campo mischiando terra e sudore, che si sdraia sul Centrale, bacia e poi mangia quella superficie che le HA regalato una gioia così forte da farle male.

Ricordo quella calda domenica in cui cambia la storia del nostro tennis.

Ricordo il fantastico rovescio a una mano di Francesca, le sue geniali invenzioni, la capacità di inventarsi una partita sempre diversa.

Ricordo che attorno a lei tutti piangono mentre lei allarga il sorriso sino a quando non le riempie il volto. Ha bisogno di dire a tutti che si sente felice.

Ricordo la festa nel clan italiano.

Ricordo lei che dice “Mamma, papà, vi amo” al microfono sul Centrale mentre Samantha Stosur siede sola e a capo chino sulla panchina dove ha coltivato un sogno finito male.

Ricordo un paio di voleé davvero complicate della Schiavo.

Ricordo quel suo ossessivo mettersi le mani sul viso e chiedersi due, tre, dieci volte: “Ma cosa ho fatto? Cosa ho fatto?

Ricordo il presidente Angelo Binaghi che mi chiede se sia proprio vero che abbiamo vinto il Roland Garros, o se invece il torneo debba ancora cominciare.

Ricordo la celebrazione del trionfo in un ristorante italiano.  Poi i canti nella notte parigina e la promessa di Francesca. “Non cambierò mai. Il prossimo anno voglio arrivare di nuovo sino in fondo.” Non erano parole perse nel vento.

Sì, io mi ricordo.

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MI RICORDO l’oro sui 200 sl di Federica Pellegrini, Pechino 13 agosto 2008.

Ricordo la delusione dei 400 sl appena due giorni prima, quel senso di impotenza, le mille domande senza risposte.

Ricordo quel suo non restare mai ferma prima della finale dei 200 sl.

Ricordo che mentre lei sale sul blocco numero 3 penso che prima o poi un’italiana ce la farà, che i nostri sogni non possono sempre morire a un metro dal traguardo.

Ricordo una mangiata di strane cose appena sotto la Grande Muraglia. Un tavolo con al centro un portapietanze tondo pieno di cibo. Giorgio Pasini di Tuttosport, Roberto Perrone del Corriere della Sera ed io.

Ricordo che non ci chiediamo cosa sia quella roba che stiamo mangiando in una taverna che in Italia non avremmo mai frequentato.

Ricordo che il giorno dopo mi sento felice per non essere stato male.

Ricordo la felicità piena, vissuta senza freni sulle tribune della piscina olimpica sino alla virata di Federica ai 150 metri.

Ricordo l’angoscia dell’ultima vasca con Sara Isakovic che rosicchia centimetro dopo centimetro.

Ricordo le parole di Federica qualche giorno dopo quella finale quando lascia solo a noi la paura. Lei è sempre stata sicura che nessuno le avrebbe tolto quello che inseguiva da quattro anni, da quando a 16 aveva toccato seconda ai Giochi di Atene.

Ricordo l’abbraccio con Roberto Perrone nello stesso momento in cui la Pellegrini tocca da vincitrice la piastra.

Ricordo le lacrime di Federica, i suoi pugni nell’acqua, lo sguardo incantato verso il tabellone elettronico che indica il nuovo record del mondo.

Ricordo un accenno di pianto mentre ascolta l’Inno di Mameli.

Ricordo Federica che canta sottovoce e batte le mani a ritmare quella musica che significa oro, successo, felicità.

Sì, io mi ricordo.

1. continua

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