
Mentre la baciavo
con l’anima sulle labbra,
l’anima d’improvviso mi fuggì.
(Edgar Lee Master: Francis Turner, Antologia di Spoon River. Traduzione di Fernanda Pivano)
C’era una volta il cinema muto. Poi è arrivato il sonoro, dal bianco e nero si è passati al colore, al CinemaScope, al 3D.
Il Columbus, in via delle Sette Chiese, era un’istituzione per noi ragazzini della Garbatella. Ci andavamo la domenica mattina, dopo la messa. Potevamo entrare solo se avevamo sul polso il timbro che testimoniava la presenza in chiesa alla funzione delle 10. Ci davano una galletta, un formaggino o, quando eravamo fortunati, una cioccolata.
Sullo schermo, film d’avventura, cow boy, che quasi tutti noi chiamavamo coi boi, contro indiani, perennemente dipinti come brutti e cattivi. I buoni erano solo i soldati con le divise blu, gli sceriffi senza paura o il coi boi solitario pieno di sani sentimenti.
Crescendo ho cominciato a frequentare il Columbus anche nei pomeriggi infrasettimanali. E ho scoperto che l’unica condizione per gustarsi il film sembrava fosse quella di fumare sigarette a ripetizione. Una nuvola di fumo, la sala ne era piena. Per me, che tossivo a ogni sigaretta accesa nel raggio di cinquanta metri, un vero tormento. Ragazzini scatenati, seguivamo le scene del film accompagnandole con urla folli e mimando ogni azione dei protagonisti.
Oggi al cinema ci si va di rado, il Covid ha dato un colpo letale a un’arte già in crisi. Ha tolto allo spettatore la voglia di frequentare quei luoghi magici dove il sogno viene trasformato in immagini e dialoghi. Stanno sparendo anche le Arene all’aperto, un’esperienza fantastica, mi dispiace per chi non l’abbia mai provata.
Il sipario si sta lentamente chiudendo.
Accade anche alle cose belle. Sono stati organizzati dibattiti, conferenze, gruppi di sostegno, a volte sono addirittura arrivati dei finanziamenti. Tutto lodevole, bello. Ma i cinema sono ancora sul viale del tramonto. Tutti noi speriamo che non scompaiano per sempre, che non se ne vadano via lasciandoci solo ricordi avvolti nella nebbia.
È un po’ quello che sta accadendo con le edicole. Trovarne una aperta dà la stessa gioia di un po’ d’acqua in pieno deserto. Non riesco a pensare che anche loro possano scomparire come hanno già fatto oggetti, luoghi o abitudini che, mi illudevo, mi avrebbero accompagnato per tutta la vita.
La guida del telefono, le cabine telefoniche, il controllore sul tram, i turisti che si orientavano con la mappa in mano, gli spazzini, i vigili urbani, le cartoline, le musicassette, la musica swing, il Postal Market, le sale da ballo sabato e domenica pomeriggio, le telefonate con il prefisso, le enciclopedie, i negozi di dischi.
E anche i quotidiani di carta, ovviamente. Il fascino della carta, la frenesia di leggere notizie, analisi, approfondimenti, storie. Un tempo accadeva, questa non è una storia di fantascienza.
Francesco Guccini sul tema ha scritto “Dizionario delle cose perdute”.
Un bel libro. L’editoria, altro settore a rischio.
È pensando al destino del pugilato che sono stato travolto da questa botta di allegria.
A Las Vegas, stanotte, si affronteranno Terence Crawford ed Errol Spence jr. Due dei più grandi campioni in circolazione. In Italia potremo vederli solo attraverso un’applicazione (Fite.tv, 19.99 dollari). Su DAZN, il 5 di agosto, andrà in onda, sempre in pay per view come annuncia la tv nel suo palinsesto, Jake Paul vs Nate Diaz. Il primo è uno YouTuber, l’altro un 38enne ex campione delle MMA al debutto nel pugilato.
La qualità paga meno degli scandali, delle sceneggiate.
La nobile arte ormai ha davvero poco di nobile, e l’arte non paga in popolarità.
Temo dunque che, spero il più tardi possibile, anche il pugilato entrerà nel mondo dei ricordi.
C’era una volta il cinema muto. Poi è arrivato il sonoro, dal bianco e nero si è passati al colore, al CinemaScope, al 3D. E adesso i cinema sono in calo imbarazzante per spettatori e incassi. È rimasto davvero poco della popolarità dei giorni felici.
Mi fermo qui.
Perdonatemi, sono un nostalgico. E oggi mi gira male.
Billy Holiday aveva ragione a chiamarla “sugar coated misery”, infelicità rivestita di zucchero. Alla base di tutto ci può essere una perdita, ma assaporiamo questa emozione come se fosse un dolce raffinatissimo: un vizio che ci concediamo di tanto in tanto, una modesta droga. Peccato solo che rischiamo di diventarne dipendenti.
(Tiffany Watt Smith, Atlante delle emozioni umane)

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