Lopopolo, quando la magia del sinistro ti porta in cima al mondo…

Sandro Lopopolo se ne è andato via per sempre il 26 aprile di nove anni fa. È stato medaglia d’argento all’Olimpiade di Roma 1960  e campione del mondo superleggeri tra i professionisti nel 1966. Questa è la sua storia.

Abitava nelle case popolari, nel quartiere Musocco, zona nord occidentale di Milano. Vicino al Cimitero Maggiore e all’autostrada per Torino.
I genitori erano emigrati da Bisceglie, in Puglia.
Sandrino Lopopolo, Alessandro sui documenti ufficiali, era il penultimo di sei figli. Era nato quasi per caso lassù, alla vigilia della seconda Guerra Mondiale.
La famiglia era tornata al Sud non appena il conflitto era scoppiato. Solo a pace avvenuta, avevano ripreso la strada per Milano.
Di soldi in casa ce ne erano pochi. Vivevano in otto in uno scantinato, umido e piccolo. I vestiti dovevano percorrere l’intera trafila dei fratelli, prima di arrivare a lui. Provavano a tirare avanti vendendo limoni e riparando rubinetti. I fratelli col tempo sarebbero diventati dei veri e propri “trombé”, idraulici a pieno titolo. Sandro avrebbe preferito percorrere altre strade.
Aveva scoperto lo sport facendo il raccattapalle al mattino per i soci del Tennis Club Milano. Nel pomeriggio lavorava come fattorino per la rivista Tennis Italiano.

Faceva le consegne andandosene in giro su una vecchia bicicletta. Girando per le vie della città gli capitava spesso di fermarsi davanti alla palestra del Vigorelli. Lì si allenava Duilio Loi.
Sandro non andava a scuola, a casa non c’erano abbastanza soldi per i libri di tutti, tempo dunque ne aveva. Di giocare a tennis non se ne parlava, costava troppo. Meglio entrare nei locali della palestra Alfa Romeo e chiedere di provare a tirare di boxe al maestro Gigino Graziani. Non costava nulla e c’era il rischio che gli potesse piacere.
Il bel faccino di quel ragazzo riccioluto e con un naso delicato, poco si prestava a uno sport così duro come quello della boxe. Ma lui voleva provarci. Naturalmente non dicendo niente in casa.
Fuori dalla palestra lo aspettava ogni sera Ida, la fidanzata che sarebbe diventata moglie e poi mamma dei loro tre figli.
Il pugilato era ormai entrato nella vita di Sandro Lopopolo. Il ragazzo sul ring ci sapeva fare. Non gli piaceva la bagarre. Preferiva uno stile più tecnico, il talento glielo consentiva. Usava il sinistro come un fioretto, la sciabola del diretto destro solo in rare occasioni arrivava a presentare il conto.
Dilettante di grandi risorse. Novanta incontri e solo cinque sconfitte.
Si divideva il ruolo di miglior peso piuma italiano con Piovesan, Mastellaro, Schiavetta e Silanos. Aveva entusiasmato pubblico e critici nel torneo che nel febbraio del 1959 si era tenuto all’interno della Palestra Ignis, grazie all’interessamento di Mario Bosisio e alla presenza della televisione. Aveva battuto ai punti Bacci, della Galileo Galilei di Pisa.
Di lui i giornali scrivevano…
Lopopolo è un ragazzo che porta bene i colpi e ha una guardia che lo protegge da quelli dell’avversario. Boxa con abilità di diretto e il suo destro secco fa male“.
Erano i tempi in cui ai campionati regionali lombardi si iscrivevano 220 atleti e le selezioni per la nazionale si facevano restringendo il numero dei partecipanti a 16 per categoria di peso. Lui guidava il gruppo.
I giornalisti lo adoravano.
Ha la pulizia tecnica di Rea, l’estro e l’orgoglio di Proietti, la figura snella ma più robusta di Poggipollini. Non fallirà, il suo destino è quello di diventare un campione“.
Aveva esordito da peso leggero ai tricolori di Torino, disputati nell’anno olimpico, era stato sconfitto da Brondi. Si sarebbe rifatto battendo il suo eterno rivale nel torneo che in luglio avrebbe designato la nazionale per i Giochi di Roma ’60.
Era entrato in squadra, Natalino Rea glielo aveva comunicato in maniera ufficiale. Era felice, anche se si portava dietro un piccolo grande segreto. Durante un allenamento, l’amico-rivale Brondi, gli aveva incrinato una costola. Solo tacendo avrebbe potuto portare avanti quell’avventura. Aveva dunque taciuto, senza tirare fuori neppure un lamento.

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Sandro aveva esordito al PalaEur proprio nel giorno di apertura dell’Olimpiade. Il suo avversaro si chiamava Johnny Bolang ed era un 19enne di Jakarta. Lopopolo aveva impiegato un minuto per trovare la giusta distanza su cui impostare la sfida. Temeva che, nel pieno di uno scambio, un colpo dell’indonesiano potesse far riacutizzare il dolore alla costola.
Negli ultimi secondi del match iniziava a scattare, finalmente in modo efficace, anche il diretto destro dell’azzurro. Centrato alla mascella, l’altro veniva contato. Successo chiaro, netto e indiscutibile di Lopopolo.
Il 30 agosto era tornato sul ring contro Stoffel Steyn, 19 anni appena compiuti, di Krugersdorp in Sudafrica. Un tipo che si preannunciava pericoloso per la facilità con cui, si diceva, avrebbe potuto incrociare il sinistro dell’italiano.
Era lento, ma saldo. Aveva gambe tozze, piedi ben piantati in terra e sparava ganci pericolosi. Lopopolo stentava a trovare la misura. Iniziava con grande prudenza, preferiva colpire di incontro anzichè provare ad attaccare. Soffriva, incassando dei solidi colpi alla figura. Ma era lui a chiudere da protagonista il finale del primo round, andando a piazzare un destro sul volto di Steyn che sembrava improvvisamente molle sulle gambe. Le altre due riprese erano state sullo stesso tema: il sinistro di Lopopolo a farla da padrone, il destro che faceva qualche rara comparsa. Successo chiaro.

Il primo settembre, il terzo combattimento. L’avversario era l’irlandese Daniel O’Brien. Aveva una boxe tosta, aspra. Braccia corte, ma solide. Lopopolo lo prendeva sul tempo, lo fermava sistematicamente con il suo magico sinistro. Il pugilato dell’azzurro era fatto di eleganti ganci, talentuosi jab. L’irlandese portava volgari sventole. La differenza stava tutta nella qualità. Quella di Lopopolo era stata la vittoria dell’intelligenza.
Neppure 24 ore e Sandro saliva nuovamente sul ring. Stavolta si giocava la medaglia. Nei quarti di finale affrontava lo statunitense Harry Campbell, 22enne californiano di San Josè. Sarebbe stato uno dei migliori match di Lopopolo da dilettante. Esecuzioni perfette, sinistri rapidi. Poca boxe, ma di grande qualità. Tirava il jab sinistro sul volto del rivale e raramente mancava il bersaglio. Il naso di Campbell sanguinava, ma l’americano riusciva comunque a replicare con il suo tentacolare gancio mancino. Nella ripresa finale Lopopolo alzava il ritmo dell’azione, jab sinistro e diretto destro facevano alla perfezione il loro lavoro. Campbell non riusciva a replicare. Successo chiaro, bronzo già in tasca per l’azzurro.

Il momento chiave dell’intera avventura di Sandro arrivava il 3 settembre. In semifinale avrebbe affrontato l’avvversario più duro. Abel Laudonio, 22enne di Buenos Aires, aveva nel suo curriculum l’esperienza di un’altra Olimpiade, quella di Melbourne 1956. Un argentino tutto di un pezzo, pesante nell’azione. Monotono nel fisico e nella boxe. Ma i suoi colpi toglievano il fiato. Il sinistro di Lopopolo cominciava, ancora una volta, a fare il suo dovere. Uno stantuffo senza pause. Sinistro, sinistro, sinistro. E quando l’altro pensava che fosse finita, arrivava il gancio destro al volto.
Sino a trenta secondi dalla fine l’azzurro aveva evitato gli scambi. Ma in quell’ultimo mezzo minuto la battaglia era esplosa in tutta la sua violenza. E aveva segnato un altro punto in favore dell’italiano, che era riuscito anche a vincere il match più rischioso. Ora non restava che l’ultimo passo, la finale per la medaglia d’oro contro il polacco Kazimierz Pazdzior.
Appuntamento il 5 settembre sul quadrato del PalaEur.

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Spesso, sino a quel momento, i giornalisti avevano criticato il modo di boxare di Lopopolo. Dicevano che non amasse lo scontro, la battaglia. In futuro avrebbero sottolineato, a testimonianza delle loro affermazioni, alcuni episodi.
«Visto? Non ho preso un colpo. Sono pronto a combattere di nuovo. Anche domani».
La frase aveva fatto il giro di Milano più velocemente del suo jab sinistro dopo una vittoria entusiasmante al Teatro Principe.
«Tutti volevano che restassi, la mia boxe esaltava i francesi. Mi avevano offerto tanto, ma io amavo il mio Paese».
Affermazione che sottolineava il talento, ma dava modo ai detrattori di puntare il dito sulla mancanza di motivazioni, sulla poca propensione a mettersi in gioco.

Da professionista Lopopolo avrebbe smentito tutti, andandosi a prendere una clamorosa rivincita. Avrebbe conquistato il campionato del mondo dei superleggeri Wbc e Wba, battendo a sorpresa a Roma il 29 aprile del 1966 il terribile Carlos “Morocho” Hernandez, picchiatore temibile ma tenuto sotto scacco dalla scherma dell’italiano. Un successo per majority decision (due giudici per lui, il terzo aveva pari) che premiava l’abilità tecnica del nostro pugile.
Quella sera avrebbe trasformato i sogni in realtà. Sandro, da sempre tifoso di Duilio Loi, si sarebbe preso la cintura che era stata del suo idolo.
E non sarebbe stato il suo unico exploit da pro. Nel record ci sono vittorie importanti su Giordano Campari, Massimo Consolati e soprattutto su Vicente Rivas.
All’Olimpiade romana, quel 5 settembre del 1960, il nemico si chiamava Pazdzior e voleva anche lui l’oro olimpico. Il polacco vantava una grande esperienza, aveva un record di 350 match con appena 19 sconfitte. E sapeva aspettare.
L’arbitro era lo scozzese Hume.
I due pugili si somigliavano dal punto di vista tattico. Erano due attendisti e questo faceva pronosticare un match incerto, ma anche noioso.
Per un intero round avevano tirato pochi colpi. Era stata una ripresa senza scosse.
Nell’intervallo, Rea aveva raccomandato a Lopopolo una maggiore attività.
-Prova ad andare avanti, fai scattare il sinistro e subito dopo piazza il destro.
«Ci proverò»
-Devi farlo. Sandro, se vuoi vincere, devi farlo.

In apertura di secondo round il sinistro di Lopopolo cominciava ad uscire timidamente dalla posizione di guardia. Il destro del polacco aveva maggiore consistenza. Era stata un’altra ripresa senza lampi, guizzi, entusiasmo.
Nell’ultimo round il polacco dava l’impressione di essere più aggressivo. Lopopolo teneva la sfida sul piano dell’equilibrio quasi esclusivamente con il sinistro. Finale non esaltante, verdetto molto stretto. Quattro giudici assegnavano il successo al polacco, uno a Lopopolo. Argento per lui al termine di un’Olimpiade che aveva condotto in porto dopo aver sofferto nei due match iniziali, a causa di quel dolore alla costola con cui si era presentato sul ring.
Aveva perso, ma per gli amici del Bar Martinelli il verdetto era stato un gigantesco errore. Avevano fischiato anche loro, come aveva fatto il pubblico del PalaEur.
Per tutto il gruppo Sandrino quella finale l’aveva vinta. E così avevano messo assieme un po’ di soldi. Si erano riuniti in un gruppo che aveva ottenuto ottanta adesioni, avevano raccolto su un bel gruzzolo ed una loro delegazione era andata da un gioielliere.
-Dovrebbe coniare una medaglia, in oro puro, come quella che danno a chi ha vinto l’Olimpiade. Si può fare?
«Basta pagare»
-Allora, la consideriamo cosa fatta.
Quella medaglia d’oro l’avevano poi messa al collo del loro amico, Sandro Lopopolo, appena tornato in zona. Quella sera al Bar Martinelli, in via Giovanni Battista Grassi, era stata festa grande. Si celebrava il campione olimpico di Roma. Perché non volevano sentire ragioni, il risultato della finale dei pesi leggeri ai Giochi era stato uno solo.
Aveva vinto, e con pieno merito, il loro amico Sandro Lopopolo.

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(da L’ORO DEI GLADIATORI, Roma 1960, La magica Olimpiade della boxe italiana. Un libro di Dario Torromeo, EditVallardi 2010)

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