
Alessio Lorusso è un personaggio che si sa raccontare. Le interviste sono ricordi custoditi in un cassetto. Lo apri, le tiri fuori e scopri che, a volte, non perdono valore con il passare del tempo. Ieri notte Alessio ha sconfitto per kot lo spagnolo Sebastian Perez a Monza ed è diventato campione europeo dei pesi gallo. Ha tolto quel brutto zero dalla casella dei titoli in mano ai pugili italiani. Un giorno di novembre di qualche anno fa l’ho chiamato al telefono, abbiamo fatto una lunga chiacchierata. Mi ha detto che…
Alessio, come reagiscono le persone davanti al tuo corpo pieno di tatuaggi?
“La gente giudica senza sapere. Qualcuno vede i tatuaggi e dice: quello è un delinquente. In pochi perdono tempo nel tentativo di capire cosa ci sia dietro quei disegni, che persona in realtà io sia, cosa ho dentro”.
Come definiresti questo atteggiamento?
“Razzismo nei confronti dei tatuati. Non ho mai pensato di toglierli, non perché sia praticamente impossibile, ma perché senza sarei un’altra persona. E poi mi sento libero di farli. Con il mio atteggiamento non vado a intaccare minimamente la libertà degli altri. Per questo non capisco le reazioni di molti”.
Per quasi tutti gli appassionati del genere, ogni disegno rappresenta un momento della loro vita. È così anche per te?
“Al 90% sì, mi ricordano una cosa bella, una vicenda triste. Raccontano la mia storia. Mi piacciono, mi guardo allo specchio e mi piaccio”.
E come ti vedi quando gli anni passeranno e supererai i sessanta?
“Più bello di oggi (ride)”.
Hai un 13 sulla fronte, cosa significa?
“Ho impresso sul corpo tanti numeri che mi rappresentano. Il 13 significa tutto per me. Ma è una cosa completamente mia. Non mi sento di dividerla con nessuno”.
Quanti anni avevi quando hai fatto il primo?
“Tredici. E ho fatto tutto da solo, ho preso ago e china e ho tatuato sul petto la A, prima lettera di Auretta. Il nome della mia mamma”.
È stato doloroso?
“Dolorosissimo. Il tatuaggio è doloroso, così ricordi meglio perché l’hai fatto”
Ora hai esaurito i posti per nuovi disegni.
“No, ho ancora qualche spazio libero sulle gambe…”.
Quale è il percorso che hai nella testa?
“Il percorso di qualsiasi pugile che abbia ambizioni è sempre lo stesso. Conquista del titolo italiano, difesa, campionato Unione Europea, europeo e poi il sogno del mondiale”.
Quanto c’è di testa e quanto di fisico in una vittoria sul ring?
“Il risultato arriva al 95% per merito di testa e cuore. La testa comanda il corpo, se non ci sei di testa non ci sei neppure di corpo. Al fisico lascio il rimanente 5%. Ovvio che allenamento duro e talento sono un’indispensabile aggiunta”.
Usciamo per un attimo dal pugilato, parliamo del privato. Come è la vita in casa tua.
“Abito a Besana Brianza con la mia compagna Federica e il mio cane, un pitbull che ho chiamato Floyd. Anche lui fa parte dei miei tatuaggi. Il nome mi ricorda un idolo: Floyd Mayweather jr. Un campione che ho ammirato, come ho ammirato Edwin Valero o Zab Judah. Ma il mio modello di riferimento resta Guillermo Rigondeaux. Classe, tecnica, colpi di incontro, mancino. Mi rivedo, in piccolo, in lui. Il sogno è diventare come lui. Sognare in fondo non costa nulla”.
Hai avuto un periodo buio, in quei mesi sono racchiuse le quattro sconfitte della carriera. Cosa è successo da luglio 2017 a dicembre 2018?
“Tanti match, nove, in cui ci sono anche due pareggi. Quasi sempre fuori casa, spesso con avversari a cui regalavo quattro/cinque chili di peso. Verdetti che in gran parte non ho condiviso”.
Poi, il cambio di marcia. Quattro combattimenti, altrettante vittorie, il titolo italiano.
“Ho firmato con Mario Loreni. Ho conservato Giovanni Gigliotti come allenatore e Stefano Abello come preparatore atletico. Il dottor Mario Ireneo Sturla mi ha aiutato come medico. Ha funzionato. Siamo una squadra vincente”.
Quanto sei legato al pugilato?
“Sono totalmente legato. Il mio rapporto con la boxe è 24 ore su 24. Guardo qualsiasi match trasmetta la televisione, mi alleno, parlo di pugilato. Non posso rimanerne un minuto lontano. Sotto questo aspetto sono un tormento per chi mi sta vicino. Ma ho un debito di riconoscenza con questo sport”.
In che senso?
“Mi ha salvato la vita, ma non per modo di dire. Mi ha davvero salvato la vita. Ero uno sbandato, sarei finito davvero male. Avevo dei problemi in famiglia, se non ci fosse stato il pugilato mi sarei perso. Ne sono certo. Avrei buttato via la mia vita in cose brutte come la droga, le cattive compagnie, le risse in strada. Ero sempre stravaccato su una panchina senza pensare al domani. Mi infilavo in ogni rissa, delinquenza e rischi di tossicodipendenza a un passo. È stata la mamma a portarmi in palestra. Abbiamo lottato assieme. La vita l’abbiamo riconquistata l’una accanto all’altro. Sono molto legato a lei. Eravamo soli, ce l’abbiamo fatta”.
C’è qualcun altro in famiglia che ti ha aiutato?
“Mio zio Romeo, lavora nella ristorazione. Mi fa compagnia, si allena con me, facciamo footing assieme. Mi dà una mano anche nelle sedute di sparring. Non so se ce l’avrei fatta senza di lui. È un grande!”
Il tuo pugilato è fatto di velocità, colpi d’incontro e grande ritmo. Sei uno dei pochi che dalle nostre parti tiri montanti efficaci. È un colpo che ti viene naturale?
“L’ho sempre portato, il lavoro in palestra l’ha migliorato. Lo so, è un pugno pericoloso: ti esponi ai colpi d’incontro, soprattutto al gancio. Ma mi piace tirarlo mi aiuta a vincere, e poi sono veloce a tornare in guardia”.
Oltre a tirare i colpi, cosa ti ha insegnato la boxe?
“Mi ha insegnato che dedizione, sacrificio, impegno sono le chiavi del successo. Nello sport e nella vita, sono i veri valori. E poi il rispetto dell’avversario, non deve mai mancare. Per ultimo, ma non ultimo, mi ha insegnato a capire bene le persone. In altre parole, pochi amici ma buoni”.