Jo-Wilfried Tsonga ha ballato per l’ultima volta sulla terra rossa del Roland Garros. Ha perso in quattro set, tre tie break, contro Carper Ruud numero 8 del mondo. A 37 anni ha detto basta, salutando con il cuore, versando lacrime malinconiche e felici, ringraziando il pubblico per tutto l’amore che ancora una volta i tifosi del tennis hanno saputo dargli. Ha vinto diciotto tornei e incassato 22,5 milioni di dollari. È stato un giocatore di talento, è un personaggio interessante. Tante volte è stato scritto della sua somiglianza con Muhammad Ali. Negli US Open del 2016 gli ha reso omaggio celebrando la vittoria nel terzo turno contro Kevin Anderson con qualche gesto da pugile. Ha fatto una mini mini esibizione di vuoto, shadow boxing. Ho avuto la fortuna di intervistarlo, io e lui da soli, a Roma un po’ di tempo fa. Le risposte che mi ha dato me l’hanno fatto piacere ancora di più.

“Oggi è un gran giorno, è arrivato il momento di dire addio al tennis.
Mi sono battuto per essere il migliore possibile, non ero pronto
a tutto questo amore”. (Jo-Wilfred Tsonga)
Tsonga, quale è la cosa più importante nella vita di un uomo?
«Amare ed essere amato».
E la peggiore?
«Essere solo». (sotto Noura, moglie di Tsonga e mamma del loro bambino Shugar).

Spesso le chiedono del grande Muhammad Ali, le parlano continuamente della somiglianza con lui da giovane. È una cosa che le fa piacere?
«Certo, per me va bene, benissimo. È un onore. Anche se non è merito mio. Ma devo ricordarmi di chiedere ai miei genitori perchè somiglio così tanto ad Ali. Ci sarà qualcosa che devo sapere?»
Pensa di avere qualcosa che la accomuni ad Ali?
«Ho visto alcuni Dvd dei suoi incontri. Forse nel mio tennis c’è qualcosa della sua boxe».
Suo padre amava il pugilato?
«Gli piaceva. Nel 1974 era a Kinshasa per “The Rumble in the Jungle”, la sfida tra Muhammad Ali e George Foreman. Abitava a Brazzaville, sull’altra sponda del fiume Congo. Ha scattato molte foto, così oggi ho qualche ricordo di quella notte magica».

Ha mai tirato di boxe?
«Sì, per scherzo. Una volta in Germania». (foto sotto).
E le è piaciuto?
«Sì».
Da bambino, quale era lo sport che preferiva?
«Il football».
Ha giocato al calcio?
«Ho giocato dai 7 ai 13 anni in una vera squadra. Avevamo il campo vicino a Le Mans, dove abitavamo. Giocavo all’attacco. Ero, come si dice in inglese?».
Wing (ala).
«No, quelle sono degli animali».
Si dice così anche per il calcio.
«Allora, va bene».
Segnava molti gol?
«Sì»
Tifa per qualche club?
«Mi piace molto giocare, ma penso che oggi il calcio sia meno interessante di una volta. Perché non sempre è il migliore a vincere, per problemi con gli arbitri o per altri problemi. I giocatori poi non hanno fair play. Non mi piace guardarlo, ma adoro ancora giocarlo».
Lo fa spesso?
«No, è pericoloso per il mio lavoro».

Quali sport guarda in tv?
«Basket e atletica, mi piace vedere la boxe».
Quale è lo sportivo che ammira di più?
«Non ho uno sportivo preferito. Mi piacciono le grandi performance, chiunque le faccia. Mi piacciono gli atleti di forte personalità. Gente che abbia carisma, sappia essere forte e leale».
Quale è stata la più forte emozione che ha provato su un campo da tennis?
«Quella durante la la finale di Paris Bercy nel 2008. In tribuna c’era tutta la mia famiglia, c’erano i miei amici, tutti quelli che mi avevano aiutato nel corso della carriera. E’ stato un momento davvero speciale. Avevo chiara la sensazione che stavo facendo qualcosa di importante anche per chi mi aveva dato così tanto».

Cosa le piace di più nel tennis?
«Mi piace quando riesco a dare il meglio di me».
E cosa non le piace?
«Non dico viaggiare, perché per tanti è una cosa bella e non possono farla. Dico allora che non mi piace stare tanto tempo chiuso in albergo. Anche se è un hotel di lusso, resta sempre qualcosa di impersonale».
Che fa per ingannare il tempo durante quelle lunghe giornate?
«Non ho tanto tempo libero, se voglio fare bene il mio lavoro devo occuparlo soprattutto nella preparazione dei match. Quando posso, leggo, guardo qualche film alla tv e soprattutto passo delle ore al telefono».
Cosa deve avere un tennista perchè sia il migliore?
«Deve possedere la capacità di dare il meglio di sé in campo. Puoi anche essere il numero 80 del mondo ed essere contemporaneamente un grande giocatore, perché dai sempre il meglio rispetto alle tue possibilità. Non è una questione di quanta tecnica, talento, fisico, o forza mentale tu abbia. È la capacità di sfruttare tutto quello che hai dentro per dare il massimo. Essere il miglior giocatore del mondo è importante, ma lo è ancora di più essere forte nella tua mente».
Può un allenatore insegnare queste cose?
«È un risultato che raggiungi mettendo assieme molte cose: la tua evoluzione umana e sportiva, la tua educazione. Gli insegnamenti di tutti i coach che hai avuto durante la carriera. E poi serve quella che tutti noi chiamiamo esperienza. Le faccio un esempio. Se incontro un uomo anziano, uno che ha vissuto più di me, posso star sicuro che lui saprà più cose di me. Perché lui ha avuto la possibilità di mettere assieme più esperienze. Ecco, per dare il meglio devi avere l’esperienza di un uomo anziano e la forza di un giovane che sappia tradurla in gioco».
Ma, lei mi insegna, un tennista può anche fare a meno di un allenatore.
“Io gioco per divertirmi, provo piacere nella lotta, nella sfida. Non voglio essere influenzato da qualcuno. Mi diverto quando sono me stesso, senza segreti. È questo che mi porta a pensare che si possa fare a meno di chiedere consigli. È bello ritrovare la spontaneità perduta”.

Cosa è per lei il Roland Garros?
«È il mio Slam preferito, quello che mi piacerebbe vincere. Lo metterei davanti anche a Wimbledon, che rappresenta la tradizione». (sopra, oggi, piange dopo l’ultimo punto)
Quale è stata la prima volta che ne ha sentito parlare?
«Non lo ricordo più, ero così giovane. In Francia è l’unico torneo che trasmettono su un canale pubblico. Lo guardano e ne parlano tutti, anche la gente che non ha i soldi per l’abbonamento alla tv satellitare».
Quale è la cosa più importante che i suoi genitori le hanno insegnato?
«Essere una persona che ha rispetto per gli altri e per se stesso».
È difficile essere un personaggio popolare?
«A volte sì».
La popolarità cambia le persone?
«Certo che le cambia. Sei uno che nessuno conosce e improvvisamente tutti sanno chi sei. È il mondo attorno a te a non essere più lo stesso. Sicuramente qualcosa di tutto questo entra nella tua testa. Può cambiarti in tanti modi. Ma stai certo che se avrai ricevuto un’educazione forte, cambierai in meglio».
Jo-Wilfried Tsonga, quale è il sogno della sua vita?
«Essere lo stesso fino alla morte. Vivere sempre con accanto la mia famiglia e tutti quelli che mi sono stati vicini».