Vent’anni fa, l’oro più incredibile dei Giochi invernali

Delta Arena, 301 W South Temple, Salt Lake City.
Interno sera.
Febbraio 2002, un 28enne siede sulla panca dello spogliatoio. Ha improbabili capelli biondo finto lanciati verso il cielo, un accenno di barbetta e un’espressione seria, concentrata.
Si chiama Steven John Bradbury, gareggia nello short track, e tra poco disputerà la finale dei 1000 metri dei Giochi invernali. Andrà in pista, ghiaccio sotto i pattini, mille pensieri nella testa. Finora è salito sul podio solo in staffetta: bronzo a Lillehammer 1994, oro ai Mondiali di Sydney nel 1991. Due medaglie che lo hanno reso popolare in Australia. Adesso è davanti a un’impresa impossibile.
Cinque in finale. Quattro fenomeni e lui.
C’è lo statunitense Apolo Anton Ohno, figlio di Yuki, un parrucchiere di Seattle che l’ha tirato su da solo. La moglie se ne è andata via quando il bambino aveva un anno di vita. Apolo è un ribelle, scappato dall’aeroporto prima del volo per il campo di allenamento a Lake Placid. Recuperato dal papà e messo sull’aereo, si è allenato con la squadra creando mille problemi. Un contestatore di 14 anni, dotato però di enorme talento. Ora è qui con il ruolo di favorito.
L’altro pretendente all’oro si chiama Kim Dong-sung, coreano. Sessantuno podi in Coppa del Mondo, 34 vittorie. È il campione uscente.
Ahn Hyun-soo, anche lui cittadino della Corea del Sud, ha 16 anni ed è un fuoriclasse.
Completa il poker di eccellenza Mathieu Turcotte, canadese da podio sicuro, 26 medaglie in Coppa del Mondo.
Nove giri per realizzare un sogno.
Via.
Steve Bradbury, mai sul podio in Coppa, sceglie di giocare le sue carte impostando un piano tattico di attesa. Nei preliminari, disputati il giorno prima, ha preferito attaccare. Gli è andata bene.
Bradbury è approdato nei quarti di finale.
Capisce che per uno come lui, senza esplosività nelle gambe e con un livello tecnico inferiore agli altri, sarebbe meglio aspettare. I 1000 sono una gara che non lesina sorprese. Nervosismo, voglia di strafare, esagerata fame di vittoria possono giocare brutti scherzi. La scelta risulta vincente. Finisce terzo dietro Ohno e Marc Gagnon, un canadese molto forte che viene però squalificato.
Bradbury è in semifinale.
Stavolta è ancora più dura. In pista c’è anche il formidabile giapponese Satoru Terao. Cadono Kim Dong-sung e Mathieu Turcotte, stessa sorte per il cinese Li Jiajun, argento a Nagano quattro anni prima. Il giapponese è squalificato.
Bradbury è in finale.
Per otto giri è lotta aperta, come se non ci fosse un domani. Sono in quattro a giocarsi le medaglie. Apolo Anton Ohno, Mathie Turcotte, Ahn Hyun-soo e Kim Dong-sun.
Bradbury è sempre alle loro spalle.
Ha nella testa mille pensieri, poco prima nello spogliatoio ha rivisto il film della sua vita.
Montreal, Coppa del mondo 1994, 1500 metri.
Sangue , svenimento, la morte vicina.
Uno scontro fortuito con un altro atleta, la lama del pattino che taglia l’arteria femorale dell’australiano. Il ghiaccio diventa rosso. Terrore. Bradbury perde una spaventosa quantità di sangue. Viene ricoverato d’urgenza, la sua vita è in pericolo. Operato, 111 i punti di sutura, diciotto mesi di riabilitazione. Recupera lentamente, ma recupera. Ha una grande forza di volontà.
Campo di allenamento, anno 2000.
Un compagno gli cade davanti. Lui, incredibilmente, prova a saltarlo. Qualcosa non va per il verso giusto, va a sbattere con la testa contro la balaustra. Si lesiona due vertebre, si frattura il collo. Due mesi con il collare ortopedico, gli dicono che probabilmente non potrà più gareggiare.
Febbraio 2002
Steve Bradbury è in pista per la finale dei 1000 all’Olimpiade di Salt Lake City.
Ultimo giro, ultima curva.
Li Jiaun cerca di superare Ohno all’esterno, tocca la sua spalla per darsi la spinta. L’americano perde l’equilibrio, trascina il cinese e finisce contro Ahn Hun-soo che in quel momento sta provando a sorpassare dall’interno. Tutti e tre finiscono giù, stesso destino per Turcotte che non riesce ad evitarli.
Un uomo solo rimane in piedi.
Steve John Bradbury, australiano di 28 anni, è medaglia d’oro in 1.29.109.
The last man standing, sarà il titolo dell’autobiografia.
«Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L’ho vinta dopo un decennio di calvario».
Restituiamo a Bradbury l’onore che merita.
Ha saputo superare mille ostacoli, ha creduto di farcela anche dopo avere sfiorato per due volte la morte. Non può essere ricordato come un perdente fortunato.
Certo, una botta di culo l’ha avuta. Ma credo che in fondo fosse pienamente meritata.





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